SEGRETISSIMO
DIRETTORE RESPONSABILE:
Laura Grimaldi
Periodico settimanale
n. 354 – 10 settembre 1970
Nick Carter
E l’oro del Reno
Titolo originale:
Berlin
Traduzione di Moma Carones
Copertina di Carlo Jacono
No 1969 by Universal Publishing and
Distributing Corporation
No1970 by Arnoldo Mondadori Editore
Nick «Sterminio» è il superagente che la super-agenzia AXE usa nei momen-
ti «di brutta». Per questo, da bravo cor iere dello spionaggio, Nick percor e
in lungo e in largo praticamente tutto il mondo.
È' appena stato ad Amsterdam per una storia di diamanti e di tradimento, e
già lo spediscono in Germania, sul magico Reno. Ma sul Reno, è ormai risa-
puto, possono succederne di tutti i colori. È' una sorta di maledizione,
scaturita dalla leggenda
e perpetuata dalla storia.
Prima di tutto, salta in aria un battello che sembrava scivolare tranquillo,
«turisticamente», sulle acque del fiume.
E Nick deve fare un tuf o imprevisto, nel tentativo di salvare il suo «contat-
to» in Germania, che viaggiava appunto a bordo del battello. Ma non sarebbe
lui se, invece del collega, non tirasse a riva una stupenda ragazza bionda.
Da una ragazza bionda pescata dal Reno a una marea di guai a non finire il
passo non può essere che breve.
Ma lasciate fare a Nick. Lui se ne intende, di bionde, di guai e di soluzioni
improvvise.
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Nick Carter
Nick Carter e l’oro del Reno
(Berlin 1969)
Personaggi principali:
HUGO SCHMIDT
NICK CARTER, alias NUMERO
cugino di Helga
TRE detto «STERMINIO»
KLAUS JUNGMANN
agente dell'AXE
agente dell'AXE a Berlino-Est
DAVID HAWK
HEINRICH DREISSIG
capo dell'AXE
capo di un movimento neo-nazista
HELGA RUTEN
ABDUL BEN MUSSAF
ragazza tedesca
ricco arabo
LISA HUFFMANN
HOWIE PRAILLER
amica occasionale di Nick
agente dell'AXE a Berlino-Ovest
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Aspettare non è mai stato il mio forte. Pare che sia una caratteristica
degli uomini d'azione, questa insofferenza per l'attesa passiva. Ed io
non sono affatto un tipo imbalsamato. Oh, mi è accaduto di starme-
ne immobile per ore e ore con l'intento di beccare la persona sulla
quale volevo mettere le mani. Ma questa è una cosa diversa. Quan-
do ci si apposta, in un certo senso si è già entrati in azione, sia pure
soltanto con i nervi e il cervello. Ma adesso non stavo in agguato.
Ero soltanto inattivo temporaneamente, a causa di un guasto alla
macchina, e fremevo perché avevo fretta.
La vallata centrale del Reno è senz'altro un posto felice, ricco
e lussureggiante. Le colline sono verdi e sui pendii verso il fiume si
vede una quantità di fiori giallo-oro, rosa e violetti, che risaltano sul
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fondo smeraldino. La strada tortuosa mostra qualcosa di nuovo e
interessante ad ogni curva.
Piccole fattorie che sembrano uscite da un libro di fiabe dei
fratelli Grimm, e di tanto in tanto la classica casetta di "panpepato".
E poi i castelli imponenti su entrambe le sponde del Reno, i famosi
"Schlosses" dei Cavalieri Teutonici del Medioevo. Sono proprio
"wunderbar", niente da dire, e fanno colpo, specie sui turisti. Le
ragazze dal fisico prospero e appetitoso sono cordialissime, tanto da
sembrar disposte ad accontentare subito ogni desiderio maschile.
Forse la dieta ricca di "würst" ha lasciato tracce un po' evidenti sulle
loro figure. Io però mi sorpresi di non aver abbastanza tempo dispo-
nibile per indagare un po' meglio.
Appunto perché l'insieme è così opulento e degno di conside-
razione avrei voluto trattenermi, ma avevo fretta di prendere il
battello. E adesso per giunta quella dannata Opel si era guastata; io
fumavo d'impazienza e non ero nello stato d'animo più adatto a
godermi il paesaggio. Tanto più che il Capo non sarebbe stato molto
contento di me, se arrivavo in ritardo.
Grazie alla mia conoscenza perfetta del tedesco, riuscii a fer-
mare un motociclista di passaggio e a spiegargli che mi trovavo in
difficoltà. Lo pregai di fermarsi all'officina di riparazioni più pros-
sima avvertendo che avevo urgente bisogno di assistenza.
Ebbi modo così, durante l'attesa, di godermi il panorama. Il
Reno scorreva ai miei piedi. A nord scorsi il tetto e il campanile del-
la chiesa di Marksburg. Ancora oltre, e per adesso non visibile, c'era
Coblenza. Là avrei dovuto prendere il famoso battello da crociera,
l'"Ausflugschiffe" che percorreva il fiume. Ma visto che non ce l'a-
vrei fatta a giungere a Coblenza in tempo, ad un certo punto
desistetti maledicendo l'uomo che mi aveva dato la Opel a nolo,
aprii le portiere per far passare un po' d'aria e ripensai a quanto m'e-
ro divertito a Lucerna sino a quella stessa mattina.
Dopo aver partecipato alla missione Martinica-Montreal, me
n'ero andato in vacanza in Svizzera e avevo fatto visita al mio ami-
co Charley Treadwell, che possedeva uno chalet nei dintorni di
Lucerna. Il soggiorno era risultato piacevolissimo, e durante una
festicciola in casa sua avevo conosciuto Anne-Marie, una svizzera
francese assai bella e vivace che sciava in modo orrendo ma era un
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sogno tra le coltri. Io feci del mio meglio per indurla a preferire il
mio lenzuolo a quello nevoso, e ci riuscii.
Al solito però, pur essendo in regolare vacanza, m'era toccato
comunicare a Hawk il mio recapito e il mio numero di telefono. Il
vecchio doveva essere sempre in grado di pescarmi ovunque, nel
caso che si fosse presentata un'emergenza. Il miglior sistema – co-
me avevo imparato a mie spese da un pezzo – per fregarmi e
impedirmi sempre di riposare. Nonché di spassarmela.
Mi accadde pure a Lucerna con Anne-Marie. Erano le sei del
mattino quando udii il trillo e schizzai fuori dal letto. Mentre affer-
ravo il ricevitore mi pervenne la voce asciutta di Hawk e guardai
con rimpianto la bella creatura che ben presto avrei dovuto abban-
donare. Dormiva, beata lei.
— Qui è l'Amalgamated Preys & Wire Services — disse il
vecchio. Solito inizio convenzionale che usava con tutti i suoi agen-
ti. — Siete voi, Nick?
— Proprio io — risposi in tono rassegnato. — Qual buon ven-
to?
— Non siete solo — ribatté subito. Il volpone mi conosceva
bene, anche troppo, e pareva che ci prendesse gusto a rompermi le
uova nel paniere. — E' molto vicina?
— Sì.
Mi parve di vederlo aggrottare la fronte.
— E' in grado di ascoltare?
— Lo sarebbe se non fosse addormentata.
— Bene. Ho un incarico da affidarvi, e poiché si tratta di una
faccenda molto privata... Uno dei nostri fotografi, Ted Dennison, ha
qualcosa di grosso da passarci. Una volta avete lavorato con Denni-
son, vero?
— Sì, lo conosco — risposi. Ted era uno dei migliori sulla
scena europea, e qualche anno prima ci era capitato di collaborare in
una missione. Ricordavo che era in gambissima nello scovar noti-
zie.
— Dovete incontrarvi con lui sul battello da crociera tedesco
che farà una fermata a Coblenza oggi nel pomeriggio, alle tre e
mezza. Poiché si tratta di roba assai importante, se per caso non
faceste in tempo a raggiungere Coblenza per quell'ora, procedete in
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auto sino alla prossima fermata, quella di Mainz. Il battello arriverà
là alle cinque.
Udii il clic del ricevitore che veniva attaccato, sospirai e guar-
dai Anne-Marie. Non batté ciglio. In quelle quattro splendide
giornate che avevo trascorso con lei l'avevo conosciuta bene. Se
sciava andava forte. Se beveva ci dava dentro. Se faceva all'amore
si abbandonava tutta, e se dormiva era peggio d'un ghiro. Non si po-
teva definire un tipo moderato, faceva tutto a fondo.
Mi vestii, le lasciai un bigliettino d'addio debitamente accora-
to e mi tuffai nella luce fredda e livida dell'alba. Certo Anne-Marie
non avrebbe avuto un infarto a causa della mia partenza improvvisa.
In fondo c'era Charley, sempre pronto a consolarla.
Presi un aereo per Francoforte, poi procedetti in macchina
verso il Reno ricco di ricordi gloriosi.
Ed ora eccomi qui, sullo stesso suolo che Cesare, Attila, Car-
lomagno e Napoleone avevano calpestato, per tacere degli eserciti
più recenti e moderni, intento ad imprecare contro chi m'aveva no-
leggiato una macchina scassatissima.
Ad un certo punto smontai di nuovo, deciso a fermare qualcun
altro. Ma ecco che vidi spuntare il furgone che attendevo. Il mecca-
nico era giovane, aveva la faccia tonda e i capelli scuri. Aveva pure
dei modi cortesi; esaminò la Opel con teutonica pignoleria, del che
gli fui grato, e con teutonica lentezza, a tal punto dall'aver voglia di
scrollarlo.
Capì subito dal mio abbigliamento che non ero tedesco, e
quando gli dissi che ero americano cercò di spiegarmi bene in ingle-
se le cause del guasto. Era così concentrato in quel nuovo compito
di erklaren da rallentare un altro poco la riparazione. Infine riuscii a
convincerlo che il mio tedesco era ottimo e che tutte quelle spiega-
zioni non erano indispensabili. Si sentì comunque in dovere di
annunciarmi che il difetto stava nel Vergasser, e cioè nel carburato-
re. Mentre ne inseriva uno nuovo lo fissai stringendo i denti.
Proprio in quell'istante vidi passare il battello sul Reno.
Quando terminò il lavoro l'"Ausflugschiffe" era ormai scom-
parso. Lo pagai in dollari e mi parve soddisfatto. Poi balzai al
volante con l'aria di pilotare una Ferrari da corsa. Il povero catorcio
ce la mise tutta e imboccò le curve in discesa con un certo aplomb.
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Man mano che mi avvicinavo al fiume ebbi di tanto in tanto la
visione fugace del battello che filava tranquillo sull'acqua tranquilla.
Raggiunsi il lungofiume e ad un certo punto mi trovai quasi paralle-
lo all'imbarcazione. Smisi perciò di sottoporre la mia caffettiera a
sforzi eccessivi e rallentai un po'. Ormai ero sicuro che sarei arriva-
to a Coblenza in tempo per salire a bordo. Tirai un sospirone di
sollievo e pensai a Dennison con un pochino di invidia. Lui almeno
si stava godendo la gita e il sole, mentre io m'ero scapicollato sin
dall'alba per raggiungerlo.
Lanciai un'altra occhiata al battello lungo e basso, con un'uni-
ca sovrastruttura al centro, in modo da lasciar libero il ponte per i
passeggeri che volevano godersi la vista. Notai infatti un mucchio
di gente affacciata ai parapetti.
Accadde all'improvviso, proprio davanti ai miei occhi. Una
cosa talmente inattesa e pazzesca da apparire irreale. Un po' come
guardare una pellicola al rallentatore.
Prima si verificarono due esplosioni. Una breve, seguita da un
gran boato dovuto allo scoppio della Caldaia. Ma non furono le
esplosioni ad impressionarmi, quanto la vista del cassero che volava
in aria e si spaccava in due. Poi il battello stesso cominciò a sfa-
sciarsi, e una gran quantità di passeggeri volò nel fiume.
Frenai di colpo accanto alla sponda. Quando balzai giù dalla
Opel, i frammenti stavano ancora piovendo nel Reno, e il battello
ormai era scomparso. Si scorgeva solo una parte della prua che si
inabissava in fretta. Sembrava che una mano gigantesca avesse but-
tato in acqua una manciata di detriti e di pupazzetti minuscoli. Mi
colpì il silenzio pauroso che seguì, dopo quel frastuono assordante.
Salvo ogni tanto il sibilo del vapore e qualche lamento lontano, il
silenzio era totale e riempiva d'angoscia.
Mi svestii in fretta, tenendo solo gli slips per un minimo di
decenza, e cacciai la mia roba in macchina, compresa la Luger Wil-
helmina e lo stiletto Hugo, che avvoltolai nei calzoni. Poi mi tuffai
nel Reno e nuotai in direzione del battello scomparso. Sapevo che ci
sarebbero stati ben pochi superstiti, purtroppo, ma forse avrei avuto
la possibilità di aiutare qualcuno o di salvare una vita. Immaginavo
che dalla terraferma qualche spettatore avrebbe chiamato subito po-
lizia e ambulanze.
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Ero attorniato da mille frammenti di legno, la sola cosa che
ancora galleggiasse. Ad un certo punto notai un braccio che affiora-
va dall'acqua. Qualcuno tentava di nuotare. Raggiunsi a bracciate
vigorose una testa bionda. Vidi che si trattava di una donna, una
bella ragazza dagli occhi azzurri vitrei e terrorizzati. Le girai un
braccio attorno alla nuca e me la trascinai verso la sponda lenta-
mente. La sentii rilassarsi subito, fiduciosa o sfinita. Mi parve
dall'espressione degli occhi, o meglio dalla mancanza di espressio-
ne, che fosse in preda a un forte choc.
In quel punto il Reno aveva una corrente forte e insidiosa, e
senza volerlo nuotando mi allontanai di duecento metri circa dalla
località in cui avevo parcheggiato la macchina. Così quando deposi-
tai la ragazza sulla riva mi guardai intorno perplesso. Aveva un
abituccio di cotone stampato che le si appiccicava al corpo rivelan-
do una figura piena, dal petto generoso e un poco pesante. La faccia
era molto tedesca, tipica, con la carnagione chiara, capelli biondi e
occhi azzurri, naso un po' all'insù. Le pupille erano ancora vaghe,
fuori dalla realtà, ma notai che cominciava a riprendersi a poco a
poco. Mi pervenne in distanza un ululato di sirene e il vocio delle
persone che accorrevano verso la sponda e commentavano l'ac-
caduto. Il seno della ragazza cominciò a sollevarsi ed abbassarsi
ritmicamente, e il suo respiro divenne più regolare. Intanto alcune
barche venivano calate in acqua per la ricerca dei superstiti. Non mi
feci illusioni. Non dovevano essersela cavata in molti. Era stata una
cosa tremenda. Rividi ancora con un brivido quel cassero che vola-
va in aria e si spezzava in due, spinto da una forza di propulsione
così potente da ricordare un lancio di missili da Capo Kennedy. Che
diavolo era successo a quel battello?
La ragazza si mosse ed io l'aiutai a mettersi seduta. Aveva an-
cora l'abitino appiccicato alla pelle, ma lo sguardo si era fatto meno
vitreo. Immaginai che ricordava l'accaduto quando la vidi scossa da
un brivido di orrore. Capii che la paura retrospettiva adesso si sa-
rebbe impossessata di lei e ancora una volta le girai un braccio
attorno alle spalle per confortarla e farle capire che ormai il peggio
era passato. Lei continuò per un pezzo a tremare e a singhiozzare.
Mormorai:
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— Nein, Fräulein. Kein mehr, schreien Sie nicht. Alles ist
über.
Lei mi si aggrappò al collo, sempre piangendo, e la lasciai
sfogare. Infine parve calmarsi e riprendere un certo controllo. Si
ritrasse e mi guardò.
— Mi avete salvato la vita. Vi sono molto grata — disse.
— Oh, forse sareste riuscita lo stesso ad arrivare fin qui — le
risposi.
— Eravate sul battello anche voi? — mi domandò.
— No, cara. Guidavo la macchina sul lungofiume quando si è
verificata l'esplosione. Anzi, stavo andando a Coblenza proprio per
salire a bordo. Dovevo incontrarmi con un amico. Mi sono tuffato
per vedere se potevo far qualcosa, ho visto che tentavate di nuotare
e vi ho aiutato a raggiungere la sponda. Chissà che fine avrà fatto il
mio amico... Dovrò informarmi subito.
Lei si guardò intorno, e ancora una volta le vidi quell'espres-
sione di orrore negli occhi quando fissò il fiume pieno di frammenti
galleggianti. Guardò anche la sponda e rabbrividì quando un soffio
di brezza le appiccicò ancor di più il vestito alla pelle, mettendo in
mostra tutte le sue curve generose. Notò che, mio malgrado, stavo
facendo l'inventario di quelle curve e abbozzò un'ombra di sorriso.
— Mi chiamo Helga — disse. — Helga Ruten.
— E io sono Nick Carter. .
— Come, non siete tedesco? — mi domandò stupita. — Parla-
te così bene la mia lingua...
— Americano. Ditemi, Helga, c'era qualcuno a bordo con voi?
— No, ero sola, per fortuna. Era una bella giornata, così ho
deciso di fare una gita sul fiume.
Mi osservò anche lei con attenzione, come avevo fatto io.
Studiò il mio fisico, atletico e in piena forma come sempre, e l'esa-
me si protrasse per un po'. Infine vidi che anche lei approvava ciò
che vedeva. Glielo lessi negli occhi, che di proposito si distolsero
dalla scena del disastro per tenersi aggrappati a quel qualcosa di
vivo che ero io. Vidi che piano piano si riprendeva. I suoi occhi
divennero più limpidi, la voce meno tremula e più controllata. Ogni
tanto era ancora scossa da brividi, ma si trattava più che altro di
freddo.
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— Dite che avete una macchina? — mi domandò infine. As-
sentii e indicai con un braccio il punto in cui l'avevo parcheggiata,
un po' più indietro.
— Ho uno zio che abita da queste parti — mi spiegò. — Stavo
appunto ammirando la sua proprietà dal parapetto quando si è veri-
ficata l'esplosione. So dove tiene la chiave di solito. Se volete,
potremmo andare ad asciugarci e a rimetterci un po' in sesto.
— Per me va benissimo — risposi, e l'aiutai a rialzarsi. Bar-
collò e mi cadde addosso. A dispetto della situazione e del momento
poco felice, il contatto di quei seni contro la pelle mi diede un certo
senso di eccitazione. Sono un uomo, dopo tutto! E lei era appetitosa,
e tanta.
Bene o male arrivammo sino alla macchina. Io trasferii il fa-
gotto con i miei indumenti sul sedile posteriore e invitai Helga a
sedersi al mio fianco. Diedi ancora un'occhiata ai soccorritori che
adesso affollavano il fiume. Mi domandai di nuovo quante persone
si erano salvate in quella paurosa ecatombe. La cosa era accaduta
con tanta rapidità che nessuno poteva aver avuto una premonizione
del disastro. E Ted Dennison? Era vivo? Improbabile. Vero che
Helga ce l'aveva fatta, e poteva darsi che... Avrei controllato alla
polizia e presso gli ospedali non appena avessi avuto un apparec-
chio disponibile, poi mi sarei messo in contatto con Hawk. Povero
Ted, se ci aveva rimesso la pelle sarebbe stato il colmo. Trascorrere
l'esistenza in mezzo a mille pericoli e agguati e poi morire a causa
dell'esplosione di una caldaia...
Helga ora tremava di freddo più che mai; tese un dito malfer-
mo in direzione di un antico castello che si ergeva maestoso tra i
monti, non troppo lontano.
— Girate alla prima laterale, poi imboccate la stradina in fon-
do. Si chiama: "Zauber Gässchen" — mi spiegò.
— Viale incantato. Oho, un nome assai romantico per rag-
giungere un altrettanto romantico Schloss sul Reno...
— E' una strada privata — continuò lei. — Conduce proprio
all'ingresso del castello di mio zio. Il terreno in discesa arriva sino
al fiume. C'è pure un imbarcadero, ma lui lo usa poco. Viene qual-
che volta qui a fine settimana, ma... Non è uno di quei nobili
decaduti costretti a trasformare la casa in un museo o in una meta
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per turisti a pagamento. E' un industriale, e i quattrini non gli man-
cano.
Trovai la stradina dalla denominazione romantica e la imboc-
cai. Il terreno era boscoso, fitto di piante verdi e di cespugli fioriti.
Mi inerpicai piano piano perché il percorso era piuttosto ripido;
ogni tanto riuscivo a scorgere qualche prato smeraldino tra gli albe-
ri. Helga continuava a battere i denti, e man mano che salivo sentivo
l'aria farsi più fredda. Anche a me si accapponò la pelle. Fui ben
contento quando arrivai davanti al ponte levatoio dell'immenso ca-
stello severo e circondato da un fossato che lo rendeva ancor più
minaccioso.
Helga mi disse di attraversare il ponte ed io obbedii. Mi fer-
mai davanti a un portale massiccio. Helga scivolò fuori e andò a
frugare tra le pietre del muro di cinta, poi tornò con un mazzo di
chiavi in mano. Le tipiche chiavi da castello, di ferro un po' ruggi-
noso, grosse e pesanti. Non feci nemmeno in tempo a balzar giù
dalla macchina per aiutarla, che lei ne infilò una nella toppa e spa-
lancò i due spessi battenti.
Poi risalì in macchina e mi diede altre istruzioni.
— Adesso procedete sino al cortile, poi andremo a toglierci di
dosso questa maledetta roba bagnata.
— Bene — risposi, dirigendo la minuscola Opel verso il corti-
le enorme e deserto, lastricato di pietra come ai tempi dei Cavalieri
teutonici.
— Vostro zio ha un telefono, per caso? — domandai a Helga.
Ero ansioso di domandar notizie sui sopravvissuti al disastro.
— Certo — mi rispose la ragazza. — L'edificio è di epoca, ma
le comodità moderne non mancano. Ci sono apparecchi un po'
ovunque, quasi in tutte le stanze. — Si tuffò le dita tra i capelli per
scuoterne via l'umidità.
— Bene. Come vi ho detto, avrei dovuto salire a bordo del
battello per incontrarmi con un amico, e vorrei cercare di sapere che
ne è stato di lui.
L'atmosfera del castello aveva qualcosa di irreale, di fantoma-
tico. Silenzio e quiete dappertutto. Quando posai i piedi nudi sui
lastroni di pietra mi sentii buffo e anacronistico. Non avevo addosso
che un paio di slips bagnati e tremavo di freddo pure io.
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— Niente domestici? — domandai.
— Lo zio se li porta solo quando viene, di solito — mi rispo-
se. — So che da qualche parte c'è un giardiniere... Anche il
cantiniere dovrebbe star qui fisso, ma non mi pare che ci sia nessun
altro. Andiamo, vi condurrò in una stanza dove potrete rimettervi un
po' in ordine.
Mi introdusse nell'anticamera enorme. Diedi luna rapida oc-
chiata e intravvidi nella semioscurità due lunghe tavole di quercia,
degli stendardi e insegne medioevali che pendevano dal soffitto, pa-
reti di pietra grigia e un camino che sembrava una grotta.
La camera che Helga mi aveva promesso risultò un'altra piaz-
za d'armi, con un letto a baldacchino nel mezzo, ricche tappezzerie
e tendaggi di broccato, poltrone enormi dalle spalliere altissime e
coperte da cuscini di seta imbottita. Un imponente armadio troneg-
giava contro una parete. Helga lo aprì e ne estrasse un asciugamani,
che mi buttò.
— E' una specie di stanza per gli ospiti — mi spiegò vedendo
che mi guardavo attorno con un certo stupore divertito. — Ci ho
dormito spesso anch'io. Adesso vado nella camera laggiù, in fondo
al corridoio, a cambiarmi. Ci vediamo tra una decina di minuti.
— Siete sicura che nel frattempo il fantasma non verrà a dar-
mi il benvenuto?
— Di giorno non c'è mai.
La osservai mentre si allontanava, con l'abito ben incollato al
provocante posteriore, e mi dissi che era tanta davvero ma che non
aveva l'aria di curarsene e si muoveva come se fosse stata una silfi-
de. Mi asciugai con cura, mi rivestii al completo, salvo la giacca,
poi mi distesi sul lettone principesco. Avevo appena finito di dirmi
che forse ero nato nel secolo sbagliato quando Helga ritornò. S'era
infilata un paio di jeans color cachi e una camicetta marrone anno-
data sull'addome che lasciava un bel po' di epidermide scoperta. La
guardai sbalordito. Ho conosciuto donne abbastanza coraggiose che
dopo un'esperienza del genere avrebbero avuto la tremarella almeno
per una settimana e si sarebbero cacciate a letto con le convulsioni.
Helga no. Si era spazzolata i capelli biondi e nei suoi occhi non si
notava più alcuna traccia del terrore che aveva provato.
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— Dimenticavo che volevate il telefono — mi disse con un
sorriso. — Sta sotto il letto. Io adesso scendo e torno nel salone.
Raggiungetemi quando avrete terminato.
Ancora una volta la seguii con gli occhi. I jeans le aderivano
ai fianchi quanto l'abito bagnato di poco prima. Non era facile igno-
rarla.
Infine conclusi che anche questo secolo andava bene, tutto
sommato, e cacciai una mano sotto il letto in cerca dell'apparecchio.
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Fu una cosa penosa e lentissima che avrebbe scoraggiato chiunque,
ma io insistetti. Chiamai tutti gli ospedali e i posti di pronto soccor-
so della zona. Avevo quasi esaurito la lista quando ebbi proprio la
risposta che temevo: il cadavere di Ted Dennison era stato recupera-
to e identificato. Oltre Helga c'erano soltanto quattro superstiti: due
uomini, una donna e un bambino. Ma il povero Ted non era tra que-
sti.
Mi affrettai a fare una chiamata intercontinentale per dare la
brutta notizia a Hawk, e ottenni la comunicazione più presto di
quanto non sperassi. Gli raccontai del tragico incidente al quale
avevo assistito. Lui mi lasciò dire sino alla fine, e dopo una breve
pausa di silenzio buttò lì un'affermazione che mi raggelò:
— Non è stata una disgrazia.
Quelle parole pronunciate in tono aspro non richiedevano
spiegazioni. Ci capivamo.
— Ne siete sicuro?
— Be', se volete delle prove potete scordarvelo — rispose. —
Ma vi garantisco che sono ben convinto, e che i miei non si possono
definire sospetti campati in aria.
Mentre parlava, alcuni particolari mi balzarono alla memoria
con nitida precisione. Rividi il battello, risentii il doppio boato. Sì,
le esplosioni erano state due, in successione rapida, quasi simulta-
nea, ma due. Di questo ero certissimo. Prima la meno assordante; la
seconda era arrivata subito, e lo scoppio delle caldaie mi aveva lace-
rato i timpani. Ma si era trattato di due detonazioni ben distinte, E
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dopo le parole del vecchio, tutto ciò assumeva un significato preci-
so.
— E avrebbero ammazzato tutta quella gente, solo per elimi-
nare Ted? — gli domandai.
— Certo. Volevano impedirgli di incontrarsi con voi, di par-
larvi e di consegnarvi il materiale che aveva raccolto — precisò
Hawk. — Cosa volete che significhino per loro poche centinaia di
vittime innocenti? Per certa gente si tratta di un giochetto. Via,
Nick, non verrete a dirmi che la cosa vi stupisce, dopo tanti anni!
Il capo aveva ragione, non avrei dovuto meravigliarmi né
scandalizzarmi, con l'attività che svolgevo. Quante volte avevo assi-
stito alla crudele indifferenza con la quale si sacrificavano le vite
umane per raggiungere uno scopo non certo nobile né pulito? Il pre-
testo era sempre il medesimo: il fine giustifica i mezzi. Pretesto
validissimo anche per chi ha voglia di menar le mani e scatena le
guerre, no? Non era dunque il caso che mi indignassi per il sistema
adottato. Ma ero furibondo perché ci era andato di mezzo Ted, e con
lui avevano distrutto delle informazioni vitali.
— Qualunque cosa avesse scoperto — dissi a Hawk — dove-
va trattarsi di roba importante. A quanto pare questa gente non si
lascia crescere l'erba sotto i piedi.
— E se era importante per lui, lo era per noi — convenne il
vecchio con voce stizzosa. — Domani ci vedremo a Berlino Ovest,
al solito posto. E' necessario che discutiamo insieme su questa spor-
ca faccenda. Prenderò l'aereo stasera e arriverò domattina. Così vi
spiegherò quel che dovete sapere. Non è che siamo molto addentro
neanche noi, ora come ora, ma vedremo di unire le nostre teste e di
raggiungere una soluzione.
Riattaccai il ricevitore con un grosso nodo di rabbia che mi si
stava attorcigliando nello stomaco. E non si trattava solo della mor-
te di Ted. Le altre vittime mi facevano ancora più pena. Ted era un
professionista come me, e chiunque abbraccia una carriera tanto
pericolosa è pure disposto a rimetterci la pelle prima o poi. Aveva-
mo sempre la morte che ci ghignava alle spalle, noi. Ci eravamo
abituati a ridere, amare, mangiare e dormire in sua compagnia. Ber-
sagli viventi di continuo. Se volevano far fuori Ted potevano
scegliere tra mille sistemi. Ma no, avevano scelto il più comodo,
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anche se doveva costar la vita a un mucchio di persone che non
c'entravano per nulla. E così facendo mi avevano costretto a inter-
venire. Non solo come agente dell'AXE, ma come uomo.
Chiunque fossero, li avrei costretti a pentirsi. E al più presto.
Scesi dal letto, aprii la porta pesante e mi inoltrai nel lungo,
umido e scuro corridoio dalle pareti di pietra. Ad un certo punto
capii, o meglio sentii, che non ero solo. Una certa sensazione di pru-
rito alla schiena mi avvertì che un paio d'occhi mi stavano osser-
vando. Mi volsi, ma scorsi soltanto delle ombre vaghe. Eppure
qualcuno ci doveva essere. Infine vidi in fondo un tipo che mi stava
guardando. Era alto, ben piantato, con i capelli color sabbia. Non
aveva l'aspetto di un giardiniere né di un addetto alle cantine. Non
mi domandò chi ero. Si limitò a fissarmi come se fosse incuriosito,
poi scomparve dietro una delle porte numerose che si aprivano sui
due lati del passaggio.
Scesi nel salone d'ingresso e trovai Helga seduta a uno dei
grossi tavoli di quercia.
— In corridoio ho visto un uomo —. le dissi. — Non vorrei
che mi avesse scambiato per un ladro. Mi guardava con una cer-
t'aria di sospetto.
— Oh, sarà stato Kurt, il custode — rispose lei con un sorriso.
— M'ero scordata di lui. Qui ci vuol sempre qualcuno di guardia.
Si alzò e mi venne vicino, poi mi prese le mani tra le sue. Si
era resa conto benissimo che non riuscivo a staccare gli occhi da
quei seni superbi che minacciavano di esplodere dalla blusa leggera.
Le spiegai che il mio amico era perito nell'esplosione; ne fu spia-
cente e mi disse alcune parole gentili e rabbrividì al pensiero di quel
che sarebbe potuto capitare anche a lei. E quando le comunicai che
l'indomani avrei dovuto andare a Berlino Ovest mi lanciò un sorriso
radioso e batté le mani.
— Ma è magnifico! — esclamò. — Io abito proprio là, a Ber-
lino Ovest! Potremmo passare la notte qui al castello, e partire
domattina presto in macchina. Ormai si avvicina il tramonto, non è
piacevole viaggiare col buio. E poi mi piacerebbe giocare un po' a
far la padrona di casa e prepararvi la cena. Oh, vi prego, accontenta-
temi!
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— Per me andrebbe benissimo, ma non vorrei che vi incomo-
daste troppo — dissi. Ma la protesta fu debolissima. L'idea di passar
la notte con quella splendida Vichinga non mi ripugnava affatto.
Non è che avessi formulato in cuor mio dei piani diabolici, ma l'e-
sperienza mi aveva insegnato che non bisogna buttar via le
occasioni perché non si sa mai che cosa può capitare. E se Helga
avesse insistito per dimostrarmi la sua gratitudine... be', sarei stato
scemo a respingerla, no?
— Oh, non sarà affatto un disturbo — mi rassicurò, e ancora
una volta richiamò la mia attenzione su quelle curve generosissime.
— Mi avete salvato la vita, dopotutto, e meritate ben altro che una
cena. Ma perlomeno cominciamo con quella. E speriamo di non far
figuracce.
Stavo cominciando a scoprire che Helga era una di quelle per-
sone che parlando davano almeno sei significati diversi a ciò che
dicevano, poi passavano ad altro di colpo, lasciandovi lì a doman-
darvi come un allocco se per caso non avevate preso un granchio o
se lei aveva proprio inteso dire che...
— Andiamo — continuò prendendomi per mano. — Venite a
farmi compagnia in cucina mentre io preparo qualcosa. Così potre-
mo chiacchierare un po'.
Pure la cucina, manco a dirlo, risultò immensa ma utilizzabile
e ben funzionante. Un'altra piazza d'armi zeppa di rame lustro e
assai decorativo, però provvista anche di pentole d'acciaio inossida-
bile o smaltato. Utile e dilettevole, insomma.
Lo zio doveva essere un buongustaio convivialista, perché tra
pentolame e stoviglie là dentro si sarebbe potuto sistemare benissi-
mo un esercito. Forse durante i week-ends al castello soleva portarsi
lì il solito paio di amici. Un forno di pietra antico, pure lui profondo
come una caverna, era incassato in una delle pareti. E accanto ad
esso la nota moderna del frigorifero ultimo modello munito di su-
percongelatore. Helga tirò fuori appunto dal freezer un abbondante
pezzo di bue e lo affettò svelta con un grosso coltello; in pochi
minuti mise parecchia roba al fuoco e accese il forno. Io sprofondai
in una bella seggiolona comoda e stetti a guardarla lavorare. Mentre
trafficava qua e là tra i tegami, mi disse che faceva la segretaria a
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Berlino Ovest, che era nata a Hannover e che apprezzava la dolce
vita.
Raggiunto un momento di pausa nelle attività culinarie, mi
afferrò di nuovo per mano e mi pilotò sino a un piccolo bar
nell'office tra cucina e salone d'ingresso e mi diede l'incarico di pre-
parare gli aperitivi. Poi, ognuno con il proprio bicchiere in mano,
andammo a fare un rapido giro del castello. La cottura delle vivande
ormai procedeva da sola.
Notai che il castello aveva al primo e al secondo piano una
gran quantità di stanzette, oltre alle piazze d'armi che già avevo
visto. La mia guida mi teneva sottobraccio e mi trasmetteva un calo-
rino assai tentatore. Il ferro battuto antico imperava ovunque, e le
scale di pietra erano del tipo a chiocciola, senza corrimano. Intrav-
vidi una stanza al primo piano che era stata rammodernata con
scaffali di libri alle pareti e una scrivania d'angolo. Helga mi disse
che quello era lo studio di suo zio. Continuò a conversare, filando
rapida. Non capii se aveva fretta perché temeva che qualcosa bru-
ciasse sui fornelli, o se cercava di non farmi capire che escludeva
dalla visita quasi tutto il lato sinistro del primo piano, dove tre porte
erano ermeticamente chiuse. Be', poteva darsi che lo zio avesse i
suoi segreti da custodire, là dentro, e che lei rispettasse la sua volon-
tà. Ma quelle porte chiuse risultavano cospicue in mezzo a tutto il
resto.
Quando tornammo giù manifestai il desiderio di visitare le
cantine. Mi parve di scorgere una lieve esitazione che durò solo un
istante. Ma fu una cosa tanto fugace che non avrei potuto affermarlo
con certezza.
— Certo, le cantine — disse sorridendo. E mi trascinò giù per
una scaletta assai ripida, di pietra piuttosto viscida. Mi mostrò poi
file e file di grosse botti in perfetto allineamento, ognuna con il suo
rubinetto di legno e la targa che specificava il tipo di vino e l'annata.
Anche laggiù si restava colpiti dalla vastità degli ambienti e dalla
quantità enorme di botti.
Tornai su con un piccolo dubbio che mi rodeva nel cervello.
Mi sembrava di aver notato qualcosa di stonato ma lì per lì non riu-
scii a collocare di preciso quella sensazione. Il mio cervello lavora
sempre in questo modo tortuoso. Mi lancia dei brevi segnali che io
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accantono e cerco di chiarire in seguito. Come una serie di punti di
riferimento che se ne stanno quieti nella mia testa ma che al mo-
mento giusto schizzano fuori e si rendono utili. Anche qui mi
accadde un fenomeno del genere. La cantina in apparenza era nor-
malissima, eppure io non ero del tutto soddisfatto. Dunque ci
doveva essere qualcosa di storto. Misi in disparte quella sensazione
fastidiosa perché sapevo benissimo che sarebbe stato inutile scervel-
larmi.
In cucina osservai Helga che finiva i preparativi della cena.
— Sapete, Nick, siete il primo americano che mi capita di co-
noscere di persona — mi disse ad un certo punto. — Ho visto una
quantità di turisti, naturalmente, ma quelli non contano. E debbo
precisare che nessuno vi assomiglia. Debbo dirvi pure che siete bel-
lo in modo eccezionale.
Sorrisi imbarazzato abbozzando un inchino cerimonioso. Hel-
ga si stiracchiò.
— Mi trovate desiderabile? — mi domandò infine senza tante
perifrasi. Se si fosse trovata in tribunale l'avrebbero accusata di cer-
car di influenzare il teste. Ma per fortuna non si trattava di un
processo, così potei guardare con aperta ammirazione tutto ciò che
mi mostrava.
— Desiderabile? Non direi che la parola è adeguata, bellezza
— le risposi. Lei sorrise e tolse dalla credenza una pila di piatti.
— La cena è quasi pronta — mi comunicò. — Facciamoci un
altro drink intanto che apparecchio e mi cambio.
Dopo il secondo giro di aperitivi cenammo a lume di candela
ad un'estremità del lungo tavolo, davanti al camino acceso. Helga
era andata a mettersi un abito di velluto nero con una lunga fila di
bottoncini che partivano dalla scollatura e arrivavano alla vita.
Le asole erano piuttosto distanziate, e tra una e l'altra si vede-
va l'epidermide. Sotto dunque la ragazza non portava nulla, e
doveva essere ingrassata un po' da quando s'era fatta quei vestito. Il
tessuto infatti conduceva una battaglia impari per non esploderle sul
seno, e aspettavo con un certo interesse la conclusione di quell'in-
contro.
Helga mise in tavola un paio di bottiglie di vino locale, davve-
ro superbo, e mi spiegò che non si trattava della produzione di suo
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zio. Lo zio infatti imbottigliava ben di rado, perché vendeva il vino
in botti e pensavano i clienti a fare il resto.
La cena, ottima, fu un autentico successo. Aperitivi, cibo e
vino contribuirono a rendere più caldo il rapporto che si era stabilito
tra Helga e me. Andammo a sederci davanti al camino con un finale
costituito da vecchio Armagnac profumatissimo. Il divano era spa-
zioso e comodo. La serata s'era fatta fredda e il castello, umido e
poco illuminato, aumentava quella sensazione di gelo nelle ossa; il
fuoco perciò rappresentava una benedizione e ci rendeva sonnolenti
e teneri.
Helga mi domandò:
— In America siete ancora assai puritani nei confronti del ses-
so?
— Puritani? — ripetei. — In che modo lo intendete?
Lei giocherellò con il bicchiere, poi se lo portò alle labbra e
mi fissò.
— Ho sentito dire che le ragazze americane sono un po' ipo-
crite perché hanno sempre bisogno di una giustificazione ogni volta
che desiderano andare a letto con un uomo — disse con voce pigra.
— Sono convinte di aver il dovere di dirsi almeno innamorate. Op-
pure prendono la scusa di aver bevuto troppo, o dicono che hanno
ceduto per compassione, o altre sciocchezze del genere. E pare che i
maschi americani si aspettino appunto questi pretesti. Altrimenti
pensano che la ragazza sia una sgualdrina.
Dovetti sorridere. Non era affatto sbagliato quel che le aveva-
no detto sulle donne americane. Dio sa se ne sapevo qualcosa io,
che avevo avuto agio di paragonarle spesso a quelle straniere e di
deplorare l'eccesso di freni inibitori nell'educazione puritana delle
nostre femmine.
Helga continuò:
— Voi, per esempio, come giudichereste una ragazza che si
abbandona senza sentire la necessità di ricorrere a certi ridicoli pre-
testi?
— Be', io non sono proprio quel che si dice il tipo di america-
no medio.
— No di certo. Debbo convenire che non avete proprio nulla
dell'uomo qualunque — mormorò guardandomi bene in faccia con
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evidente interesse. — Non dovete risultare "medio" in nessuna cosa,
a giudicare dal vostro aspetto. C'è in voi quel non so che... Non mi è
mai accaduto di trovarlo ancora in altri uomini. A guardarvi si
direbbe che potete essere terribilmente tenero e nel contempo terri-
bilmente crudele.
— Avete parlato delle giustificazioni e dei pretesti delle donne
americane, Helga. Da ciò arguisco che quelle tedesche non ne han-
no bisogno.
— Oh, al giorno d'oggi abbiamo superato certe ipocrisie — mi
rispose fissandomi con intenzione e continuando a stiracchiarsi e a
mettere a dura prova la resistenza dei piccoli bottoni. — Qui le scu-
se non servono più, ormai. Affrontiamo la realtà dei nostri desideri
e dei nostri bisogni, accettandoli come sono. Forse questo è il risul-
tato di tante guerre e di tante sofferenze, ma oggi abbiamo smesso
di darcela ad intendere. Diciamo pane al pane e vino al vino, debo-
lezza alla debolezza, bramosia alla bramosia, forza alla forza e sesso
al sesso.
Qui una ragazza non pretende che un uomo le dica "ti amo"
quando la desidera soltanto. Né il maschio pretende che la femmina
mascheri la propria curiosità con delle scuse sciocche.
— Molto illuminante e lodevole — osservai.
Gli occhi di Helga adesso si erano incupiti e avevano assunto
una tinta più blu che celeste, e guizzavano di continuo dal mio volto
al mio corpo e viceversa. Ogni tanto si passava la punta della lingua
sulle labbra tumide. Il suo desiderio era trasparente, percepibile co-
me l'elettricità. Naturale che la desiderassi anch'io. Tesi una mano
per accarezzarle la nuca, poi me' la tirai vicina.
— E cosa dite voi, Helga, quando provate qualche impulso
che i nostri bravi puritani definirebbero peccaminoso? — le sussur-
rai nell'orecchio. Lei socchiuse ancora un po' le labbra, mi si
accostò un altro poco.
— Dico: "Ti voglio" — affermò con la voce un po' arrochita.
E lo ripeté: "Ti voglio".
Le sue labbra incontrarono le mie. Erano dolci e morbide, cal-
de e arrendevoli. Poi il bacio divenne più appassionato e violento.
Le mie dita cominciarono a giocherellare con i suoi bottoni. Non in-
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contrai la minima resistenza, e ben presto le accarezzai i seni nudi e
tiepidi.
Per un istante si staccò da me e cominciò a divincolarsi, ma
non intendeva respingermi. In un attimo si fece scivolar giù il vesti-
to e tutto il suo corpo florido si liberò. Come avevo immaginato,
non portava che quell'unico indumento e non aveva intenzione di
tenerselo addosso a lungo. Ammirai la carne bianca, mi chinai a ba-
ciarla, e lei si abbandonò con un entusiasmo lusinghiero, rispose
alle mie carezze, mi si avvinghiò, mi conficcò gli artigli rossi nelle
spalle, alternò i baci ai morsi.
Anch'io cominciai a svestirmi, quando la vidi ansimare, e lei
mi aiutò con mani rese maldestre dalla fretta, tremanti.
I preliminari sono sempre piacevoli, anche se estenuanti. No-
nostante stessi bruciando anch'io come lei, mi attardai a lungo in
quell'operazione preparatoria, ma Helga mi supplicò di far presto
con una voce cupa che aveva qualcosa di animalesco. Mi parve che
nel suo abbandono non ci fosse nulla di tenero. Fu come un'esplo-
sione dovuta a qualche molla interna di "bisogno". Proprio il
bisogno di un animale in calore. Piacevole ma divorante.
Anche la sua struttura fisica — una via di mezzo tra la vichin-
ga e l'amazzone — contribuì ad imprimere una nota particolare al
nostro accoppiamento. I suoi fianchi robusti dall'ossatura forte la
rendevano molto simile ad una specie di Dea della Terra. Infatti non
c'era proprio nulla di spirituale in quella gattona bionda che sem-
brava mi volesse annientare.
Per fortuna io non sono un tipo facilmente annientabile, e riu-
scii a risponderle dandole ciò che voleva.
In seguito, mentre giacevo placato al suo fianco, mi resi conto
che reagivo in modo strano. Oh, era stata una cosa eccitante, senza
dubbio. E molto piacevole. Me l'ero goduta un mondo, come no?
Tuttavia mi sentivo insoddisfatto. Avevo la sensazione di essere sta-
to solo uno strumento. Una cosa di cui Helga si era servita per il
proprio piacere. Insomma, non mi pareva che ci fossimo scambiati
della "simpatia" nell'incontro. Se fossi stato una verginella avrei
detto che quella donna aveva abusato di me!
Guardai le sue curve piene e mi venne la curiosità di riprovare
per constatare se sarei rimasto ancora insoddisfatto com'ero adesso.
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Dopotutto la bionda valeva lo sforzo. Sì, sapevo per esperienza che
non sempre il primo amplesso dà il piacere sperato, e per un muc-
chio di ragioni diverse che non dipendono da noi ma da un
complesso di imponderabili. E' difficile "centrare" con una scono-
sciuta di cui si ignorano le reazioni psichiche e sensorie. Ci vuole
del tempo a volte per raggiungere l'armonia.
Di colpo com'era crollata, Helga si rizzò a sedere, si stiracchiò
un poco, poi scese dal letto.
— Adesso vado a dormire in camera mia.
— Sola? — le domandai stupito.
— Sola — rispose con voce piatta e tranquilla. — Non posso
sopportare di dormire con nessuno, non sono mai riuscita a farlo.
Buona notte, Nick.
Nel passarmi davanti mi sfiorò la faccia con un lieve bacio
fraterno, se così si può definire, poi se ne andò alla svelta, attraver-
sando di corsa la stanza in penombra come un bianco fantasma
privo di lenzuolo. Io rimasi lì per un po' a guardare il fuoco morente
nel camino, poi salii nella stanza che Helga mi aveva assegnato
all'arrivo. Mi coricai nel grande letto a baldacchino e conclusi che
quella era una strana ragazza. Non mi sembrava proprio una degna
rappresentante della Fräulein normale.
La mattina dopo mi svegliai presto. Lo Schloss era silenzioso
come una tomba e altrettanto allegro ed accogliente. Durante la not-
te mi ero svegliato una volta di soprassalto perché m'era parso di
udire un grido di dolore. M'aveva spaventato, quel grido, ma ancora
non potevo dire se avevo sognato o no. Per un po' ero rimasto là con
l'orecchio teso nel buio, ma non avevo più sentito nulla e ad un cer-
to punto m'ero rimesso a dormire. In seguito non si erano verificati
altri incidenti, sognati o veri che fossero, e io avevo fatto un bel
sonno profondo sino al mattino.
Mi vestii solo in parte e uscii per andare a cercare l'astuccio
con il rasoio che avevo lasciato in macchina. La porta di Helga era
spalancata e vi sbirciai dentro. Dormiva ancora, coperta solo fino
all'addome, con i magnifici seni giunonici allo scoperto e i biondi
capelli sparpagliati sul guanciale. Ancora una volta ammisi che era
una gran bella ragazza. Una ragazza notevole e insolita, cosa che af-
fascina sempre un uomo perché lo sconcerta.
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Ma quando ebbi terminato di radermi capii che durante il
giorno avrei avuto troppe cose da fare e che non mi sarebbe avanza-
to il tempo di pensare alle stranezze di Helga.
Mi accingevo a tornare nella sua camera per svegliarla quando
vidi quella piuma per terra in corridoio. Era lunga, brunastra con
delle chiazze nere. Le avevo già vedute da qualche parte, ma ora
non rammentavo dove né quando. La stavo appunto esaminando
incuriosito quando Helga comparve con l'abitino di cotone del gior-
no prima. Adesso che era lavato e stirato le dava un'aria provocante.
Le mostrai la penna.
— Entrano volatili di tutte le razze in questo castello — disse
lei con un'alzata di spalle, poi mi abbracciò e mi diede un breve
bacio sulla guancia. Tentai di reagire con qualcosa di più impegna-
to, ma lei scosse il capo.
— Vorrei tanto potermi fermare, ma...
— Anch'io. E anch'io ma. Pazienza, non pensiamoci più, al-
trimenti peggioriamo le cose.
Helga sorrise e fece un passo indietro. Poi mi tese la mano.
Scendemmo insieme così, come due ragazzini virtuosi, e in cortile
balzammo sulla Opel e ci affrettammo a partire.
Mentre mi calavo giù per il sentièro tortuoso che conduceva
all'autostrada, notai che sorrideva come se fosse soddisfatta di sé.
Ancora una volta mi dissi che quella Helga Ruten doveva essere un
tipo balordo. E quando mi diressi verso Berlino Ovest continuai a
pensare alla notte precedente. Era la prima volta che avevo passato
la notte in qualità di ospite in un castello. Rammentai pure che Hel-
ga aveva parlato spesso di suo zio, ma in fondo non mi aveva detto
nulla di lui. Mi venne la tentazione di domandargliene almeno il
nome ma poi vi rinunciai. Che me ne importava, in fondo? Avevo
avuto un interludio piacevole, ma adesso c'era ben altro a cui pensa-
re. Tra poche ore mi sarei incontrato con Hawk e Dio solo sapeva
quale missione diabolica mi avrebbe affidato il vecchio. Ben presto
Helga sarebbe stata soltanto un ricordo. E se per caso l'avessi rive-
duta mi sarei cavato la soddisfazione di riprovarci.
Arrivammo a Helmstedt – il posto di controllo per il traffico
proveniente dalla Germania Occidentale e diretto all' Autobahn – in
perfetto orario. Esaminarono le mie carte e non trovarono nulla da
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eccepire. Helga aveva il certificato di residente a Berlino Ovest, e
nemmeno con lei ci furono difficoltà.
Le centoquattro miglia che percorsi per raggiungere l'ex-capi-
tale tedesca mi fecero concludere che l'Autobahn aveva un bisogno
urgente di riparazioni. La sola cosa buona era la possibilità di corre-
re quanto volevo, ma il mio macinino arrivò a destinazione alquanto
malconcio dopo la prova.
A Berlino Ovest ci fu un altro breve controllo da parte dei
Vopo, la Volkspolizei della Germania orientale, ovvero Polizia del
Popolo. Una volta entrati nella zona occidentale, Helga mi spiegò la
strada che dovevo prendere per accompagnarla a casa sua. Abitava
dalle parti dell'aeroporto Tempelhof.
Quando fermai lei scese d'un balzo, poi mi diede una chiave.
— Se ti fermi un po' in città vieni da me. Ti costerà meno
dell'albergo.
— Se mi fermo verrò a trovarti, ci puoi contare — le risposi
infilandomi la chiave nel taschino. — E non sarà certo per rispar-
miare i quattrini dell'albergo.
Si allontanò dopo un breve cenno di saluto, ed io osservai i
suoi fianchi che ondeggiavano in direzione del numero 27 di Ulme
Strasse. Ripartii subito per vincere la tentazione di seguirla.
Quella chiave in tasca era già qualcosa. Ma ci avrebbe pensato
Hawk a impedirmi di utilizzarla, ero pronto a scommetterci.
Mi avviai verso la Kurfürstendamm, dove l'AXE aveva il suo
quartier generale tedesco.
3
La mia caffettiera a nolo aveva subito più di quanto non riuscisse a
sopportare, e adesso al rumore di ferraglia s'era aggiunto anche un
macinio sospetto, mentre mi avvicinavo alla "Quinta Strada" di Ber-
lino Ovest, la Kurfürstendamm Strasse.
Ora che avevo scaricato Helga m'ero trasformato in un tipo
deciso e pronto all'azione, con tutti i sensi all'erta, compreso il sesto.
Mi accadeva sempre così. Ad un certo punto l'Agente n.3 detto
"Sterminio" faceva un balzo avanti e si lasciava alle spalle tutte le
altre personalità. Ciò era dovuto in parte all'addestramento e in parte
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a qualche meccanismo interiore che pareva scattasse da solo; forse
era l'odore del rischio a farlo scattare, o l'anticipazione della lotta, o
l'eccitamento della prossima caccia. Non so bene, salvo che andava
sempre così e che ogni volta percepivo la trasformazione di me
stesso man mano che si verificava.
Sia che si trattasse di questa sensibilità particolare, sia che si
trattasse di abitudine, quando diedi un'occhiata allo specchietto re-
trovisore mi accorsi che qualcuno mi stava seguendo. Il traffico era
notevole e avevo cambiato strada parecchie volte per non venir
meno al sano principio di far perdere le mie tracce a chiunque in-
tendesse pedinarmi. Ma l'avevo fatto solo per prudenza, in quanto
era troppo importante mantener segreta l'ubicazione dell'agenzia
berlinese dell'AXE. In realtà non pensavo che qualcuno mi avesse
già identificato e mi si fosse messo alle calcagna. Troppo presto.
Eppure ad ogni svolta avevo notato alle mie spalle una Lancia che si
teneva sempre un po' indietro, di almeno tre o quattro macchine, ma
che seguiva esattamente il mio percorso.
Era un bestione potente, grigio-acciaio, modello 1950 o giù di
lì. Ma il fatto che fosse vecchia non aveva importanza. I tipi nuovi
non avevano portato molte migliorie nella Lancia, e quella che mi
stava dietro poteva dare del buon filo da torcere al mio macinino
sgangherato.
Presi ancora qualche svolta brusca, tanto per avere la confer-
ma dei miei sospetti, e vidi che non mi ero sbagliato. La Lancia mi
stava sempre dietro, sempre tenendosi a debita distanza per non in-
sospettirmi. Ma io ero già consapevole. E all'erta.
Mi domandai come avevano fatto – chiunque fossero – a
pescarmi così in fretta. Poi, ripensandoci, mi resi conto che se qual-
cuno intendeva tenermi d'occhio non doveva aver fatto molta fatica.
Magari sapevano, com'era probabile, che dovevo incontrarmi con
Ted, e mi avevano tallonato sin da Francoforte, quando avevo preso
quella Opel a nolo. Non c'era da stupirsene, e già cominciavo a non
sottovalutare l'abilità di quella gente. Dovevano avere una rete assai
rispettabile di spie ben coordinate, e già mi avevano offerto una bel-
la prova della loro efficienza facendomi esplodere il battello sotto
gli occhi. E adesso seguivano me. Eliminato Ted, seguivano me per
vedere dove li portavo, sperando che li conducessi proprio da papà
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Hawk. "Vi porterò da vostra nonna, all'inferno!", sibilai tra i denti.
Stavano freschi se speravano che fossi idiota.
Spinsi la Opel al massimo e le feci fare un paio di giri attorno
a un'isola pedonale, poi tagliai per una stradina angusta. La Lancia,
assai più voluminosa, dovette prendere la curva in modo assai bru-
sco, e notai con soddisfazione che quasi non ce la fece. Svoltai con
altrettanta rapidità al successivo angolo, indi girai di nuovo a sini-
stra. Mi pervenne lo stridore dei freni della Lancia che si sforzava di
starmi dietro. Se quel labirinto di viuzze si fosse esteso per un altro
poco, sono sicuro che sarei riuscito a seminarli. Ma il groviglio tan-
to comodo terminò. Lo constatai con un'imprecazione quando mi
trovai su una strada larga e diritta, affiancata da magazzini e deposi-
ti di autotreni. Scorsi nello specchietto la Lancia che incalzava
spietata. Ormai avevano capito che m'ero accorto dell'inseguimento
e non cercavano più di nascondersi dietro altre macchine. Erano de-
cisi a beccarmi e guadagnavano terreno alla svelta. Un macchinone
come quello avrebbe trasformato la piccola Opel in una polpetta, se
fosse riuscita a tamponarmi. La carrozzeria della Opel era un guscio
d'uovo. Se avessi potuto prevedere quella gimkana, a Francoforte
avrei noleggiato un panzer, ma ora come ora immaginavo quel che
sarebbe accaduto: una collisione, uno dei tanti incidenti stradali. La
Lancia sarebbe filata via, e la Polizei si sarebbe arrangiata a dispor-
re dei resti.
Il macinino non ne poteva più. Faceva un chiasso d'inferno ma
in fatto di velocità non guadagnava un centimetro. Quella doppia
fila di magazzini ai lati pareva interminabile. Non c'erano svolte, e
la Lancia avanzava sempre più veloce.
D'un tratto notai un angusto passaggio tra due depositi. Virai
di colpo, mentre i freni manifestavano la loro stridula protesta. Un
paraurti sfiorò una piattaforma da scarico ed io intuii dal sobbalzo
che s'era preso una bella ammaccatura. Però ce l'avevo fatta a passa-
re, proprio per un pelo. Non avevo udito la Lancia frenare di colpo
come avrebbe dovuto, e me ne domandai il perché. Ne capii il moti-
vo quando sfociai dall'estremità opposta del passaggio e vidi la
macchina grigio-acciaio spuntare da un altro angolo due isolati più
avanti. Quei maledetti erano avvantaggiati dal fatto di conoscere la
città assai meglio di me.
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Ora mi trovavo su un'altra strada spaziosa ed ero tornato al
punto di partenza. La Lancia mi tallonava. Adesso qualche strada
laterale c'era, ma mi accorsi che mi mancava il tempo di ritentare lo
scherzo di prima. Quel bestione mi avrebbe investito in pieno, e a
piena velocità.
Sterzai rapido mentre la Lancia raggiungeva uno dei parafan-
ghi posteriori della Opel, che fece un testa-coda. L'altra macchina
però si era lasciata trascinare dalla spinta e mi aveva oltrepassato.
Fece marcia indietro per tornare all'attacco ed io, ripreso il controllo
della vettura, imboccai una laterale prima che quelli mi venissero
addosso. E quelli rombando ripresero l'inseguimento. Maledetti ma-
ledetti maledetti. Non ero ancora riuscito a vederli in faccia, ma
sapevo che erano in tre o quattro. Avvantaggiati pure dalla superio-
rità numerica, accidenti a loro!
La strada laterale portava ad uno spiazzo occupato da molte
bancarelle di venditori ambulanti. Un mercato all'aperto, per lo più
di frutta e verdura. Mi insinuai a fatica tra le bancarelle abbastanza
contento al pensiero che anche gli altri sarebbero stati ostacolati.
Scorsi con un'occhiata la Lancia che emergeva implacabile dall'an-
golo. Ancora una volta la scarsità di spazio mi offrì un temporaneo
vantaggio, anche se sapevo che non sarebbe durato a lungo. Dovevo
trovare una soluzione lì perché se fossi uscito dal mercato sarei
morto. Mi diressi verso un edificio quadrato davanti al quale era
fermo un grosso camion dalle portiere aperte. Fermai la Opel di
fianco al camion, balzai giù, montai sul pesante automezzo e ridi-
scesi rapido dalla portiera opposta. Frattanto la Lancia guadagnava
velocità e si scagliava a tutta birra contro il baule posteriore del mio
macinino. Mi pervenne il frastuono del cozzo e immaginai che la
Opel era diventata una fisarmonica, mentre era presumibile che la
dannata Lancia non avesse un graffio. Bella forza!
Già prima di parcheggiare in quel punto avevo notato il por-
tello aperto di fronte al cofano del camion. Poteva rappresentare una
via d'uscita e mi affrettai a raggiungerlo. Arrischiai un'occhiata alle
mie spalle e mi pervenne il sibilo di una pallottola. Accidenti a loro,
mi avevano già visto! Ed erano proprio in quattro. Adesso erano
smontati dalla macchina e mi rincorrevano di corsa. Anch'io però
ero armato, e pensai di utilizzare Wilhelmina per bloccare un po' il
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loro entusiastico zelo. Tirai il grilletto ed ebbi la soddisfazione di
vedere che si sparpagliavano come foglie sospinte dal vento; intanto
io scivolai all'interno dell'edificio. Vidi subito che si trattava di un
enorme stanzone, scuro come una caverna, pieno di pile e pile di
cassette sovrapposte, balle e scatoloni di varia misura. Una vera
ragnatela di scalette metalliche portava sulle scansie, pure metalli-
che, che formavano i ripiani superiori. Anche lassù avevano
depositato altre cassette. La mia idea sarebbe stata quella di entrare
dal portello e filar via dall'uscita posteriore. Non sarebbe stata poi
un'idea malvagia. Ma purtroppo non esisteva alcuna uscita posterio-
re. Tutto chiuso ermeticamente. Non c'era che il vano per il quale
m'ero introdotto, e che ora avrebbe permesso di entrare anche ai
miei inseguitori.
Udii un suono di passi e di voci, e mi appiattii dietro una pila
di scatoloni. Si stavano separando e si mettevano a ventaglio per
catturarmi con più facilità. Strategia da manuale scolastico. Questi
tedeschi sempre privi di immaginazione! Si attenevano sempre in
modo cieco all'autorità dei testi, e non calcolavano mai gli imponde-
rabili.
Sentii che uno di loro avanzava nella mia direzione, incauto e
troppo svelto. Lo avrei beccato benissimo con una pallottola della
mia "Wilhelmina" se proprio in quell'istante un'asse non avesse
scricchiolato sotto le mie scarpe. Mandai un paio di moccoli quando
lo vidi fermarsi e arretrare piano.
Fui molto stupito, nell'osservare l'individuo. M'ero aspettato
un tipo di teutone massiccio e biondo, o magari anche uno slavo o
chissà, un bel cinesino giallo. Invece costui era un ometto piccolo e
molto bruno, dal naso a becco. Lì per lì non avrei saputo dove col-
locarlo.
Vedendo che si cacciava la mano in tasca per estrarre la pisto-
la gli balzai addosso e gli mollai una sventola alla mascella che lo
rovesciò all'indietro come un birillo. Ma aveva fatto in tempo a im-
pugnare l'arma e a tirare il grilletto. Il colpo partì, per fortuna a
vuoto, ed echeggiò in modo tremendo nello stanzone.
Altri passi vennero di corsa nella mia direzione ed io scivolai
in uno stretto passaggio tra le pile di cassette, poi mi insinuai in un
altro, e in un terzo. Tanto per disorientarli un po'. Sentii che si fer-
27
mavano accanto al compagno abbattuto e lo aiutavano a rimettersi
in piedi. Poi si infilarono in una delle varie strettoie, come avevo
fatto io, ma cercarono di non allontanarsi troppo dal portello per
non precludersi un'eventuale via d'uscita.
Mi guardai alle spalle e vidi che potevo arretrare, sì. Ma non
sarebbe stato che ritardare di qualche minuto l'inevitabile. Sarei fi-
nito con le spalle al muro e quattro avversari di fronte. E non avrei
più avuto scappatoie. Vidi che la pila di cassette dietro la quale m'e-
ro rifugiato era disposta a scala, forse per facilitare il raggiungi-
mento degli scaffali superiori. Balzai con l'agilità silenziosa di un
gatto sulla prima e poi procedetti sino alla sommità e avanzai stri-
sciando sul ventre per affacciarmi a guardar giù. Li scorsi in uno dei
passaggi che avanzavano piano, cauti, e sbirciavano in tutti gli an-
goli. Adesso s'erano fatti prudenti. Due erano alti e biondi come
m'ero aspettato, e gli altri due piccoli, bruni e secchi.
Non sarei mai uscito da quel magazzino con l'aiuto della
pistola. Una sparatoria avrebbe finito con l'intrappolarmi là dentro,
e i pronostici erano quattro a uno in loro favore. Non avevo molte
possibilità. E cominciavo già a sentirmi prigioniero in quella specie
di cul-de-sac.
Bisognava uscire al più presto. Una parola. Mentre stavo lì
affacciato, una delle cassette vacillò un poco e mi diede un'idea.
Uno dei miei pedinatori stava proprio lì sotto. Feci un calcolo rapi-
dissimo della distanza tra le file e del tempo che mi sarebbe
occorso. Valeva la pena di tentare, e almeno li avrei colti di sorpre-
sa. L'elemento sorpresa era importantissimo perché mi avrebbe dato
qualche secondo di vantaggio su di loro. E un secondo di vantaggio
significava poter balzare alla porta e arrivarci primo.
Diedi un bello spintone alla cassetta che piombò proprio sul
bersaglio. Ma mentre la muovevo mi toccò fare un po' di rumore e
l'uomo ebbe il tempo di guardar su e di scansarsi. Non gli servì mol-
to perché il missile gli arrivò addosso ugualmente e lo abbatté.
Sentii il suo mugolio di dolore e la bestemmia che lanciò mi parve
una musica celestiale. Spiccai un balzo e scavalcai il passaggio tra
le due pile di casse. Quando mi ritrovai sull'altra sponda filai svelto,
senza curarmi di essere udito o no. Adesso la cosa essenziale era la
velocità.
28
Calcolai ancora la larghezza del nuovo passaggio senza fer-
marmi e balzai di là. Stavolta vi atterrai sulle mani e sui piedi. Poi
mi calai giù senza perder tempo e corsi come un fulmine verso il
portello. Sentii che il quartetto mi rincorreva, ma prima che fossero
arrivati stavo già fuori e filavo sul marciapiede. Quei pochi secondi
di vantaggio mi avevano servito davvero, ma non era detto che fossi
del tutto "fuori dal bosco". Notai un gruppo di curiosi che guarda-
vano la Opel accartocciata. Certo erano in attesa dei vigili. La
Lancia, maestosa e deserta, stava pure aspettando quei bravi signori
che non avrebbero tardato a riprendere la caccia.
Mi volsi e ne vidi tre in arrivo. A piedi, naturalmente. Cercai
di mescolarmi tra la folla dei compratori che si trovavano al merca-
to con l'illusione di perdermici, poi l'occhio mi cadde sulla ragazza
che stava infilandosi con un grosso pacco di provviste in una Mer-
cedes 250-SL.
Proprio quel che mi occorreva. La Mercedes, non la ragazza.
Sapevo che quella macchina sarebbe andata più svelta della Lancia.
Notai con un'occhiata fugace che la pupa era graziosa, alta e sottile,
e che portava i pantaloni grigi e un maglioncino di un grigio un po'
più chiaro.
La raggiunsi proprio mentre apriva la portiera dal lato del
volante e si accingeva a montare. Si volse a guardarmi allarmata
quando piombai dentro anch'io e la spinsi in là per mettermi al
posto di guida.
— Zitta — sibilai con aria minacciosa. — State zitta e non vi
farò nulla.
Senza volerlo avevo parlato in inglese, poi mi ricordai che ero
in Germania e cominciai a tradurre, ma lei mi interruppe secca:
— Capisco benissimo l'inglese. Volete spiegarmi cosa inten-
dete fare?
Avviai la macchina e mi resi conto della potenza del suo mo-
tore.
— Nulla — le risposi mentre mi lanciavo come una bomba
addosso ai tre inseguitori. Li vidi indietreggiare e dividersi per evi-
tare di essere investiti. Notai pure, quando li ebbi oltrepassati, che
risalivano in fretta sulla Lancia. Si volse pure la ragazza e notò che
la macchina cominciava la rincorsa.
29
— Fermatevi subito — mi disse in tono autoritario — e scen-
dete. Non avete alcun diritto...
— Spiacente — ribattei, e presi una curva audacissima su due
ruote.
— Non siete tedesco — osservò. — Americano, vero? Basta
vedervi guidare... Chi siete, un disertore?
— No, carina — le risposi prendendo un'altra curva fulminea.
— Ma adesso non è il momento del quiz da sessantamila dollari. Vi
conviene starvene zitta.
Vidi che si voltava a guardare la Lancia inseguitrice. Io adesso
avevo raggiunto una strada aperta e premetti l'acceleratore con mol-
ta allegria. Sentii che la Mercedes rispondeva e sorrisi.
— Sono lieta di vedervi così soddisfatto — osservò lei con
acredine. — Si può sapere dove volete andare? Visto che mi co-
stringete ad accompagnarvi... Cosa intendete fare di me? Rapirmi
soltanto o eliminarmi?
— Piantatela. Ho detto che non vi farò nulla e lo ripeto. Rilas-
satevi, non è il caso di aver paura. Mi serviva una macchina
d'urgenza e ho preso la prima che...
— Ma bene! Però avete preso anche me.
Le lanciai un'occhiata di sbieco. Vidi che era bella davvero,
anche se quell'aria seccata non le donava affatto. Una faccina dall'e-
spressione volitiva e intelligente. E sapeva dominarsi abbastanza,
tutto sommato. Il maglioncino aveva i giusti rigonfiamenti al posto
esatto. Stavo per domandarle dove aveva imparato così bene quel-
l'inglese dall'accento e dalle espressioni americaneggianti, quando
un proiettile perforò il tetto della macchina.
— Buttatevi giù — le gridai. E lei obbedì. Si accoccolò sul
tappetino e mi guardò.
— Sapete, non mi sento affatto rilassata.
— Nemmeno io, ve l'assicuro — le risposi abbordando una
nuova curva che fece sprigionare qualche scintilla dai pneumatici.
Notai che era molto padrona di sé, e ciò mi fece piacere. Continuò a
studiarmi, seduta sul tappetino, come se si fosse trovata sulla pol-
trona di un salotto. Un altro sparo lacerò il tetto della Mercedes.
Quella brava gente aveva capito che non ce l'avrebbe fatta a supe-
rarci e bloccarci, così era passata alla violenza aperta. Il solo modo
30
per costringermi a fermare la macchina. Adesso la strada fece una
curva larga, e mi trovai parallelo ad una mezza dozzina di binari.
Qualche raccordo, forse. Mi sembrava strano che una ferrovia per-
corresse un tratto della città.
Come a smentirmi, un rapido spuntò all'orizzonte e un'idea mi
spuntò in testa contemporaneamente. Ormai avevo capito che non
mi sarebbe stato facile scrollarmi di dosso quella Lancia nemmeno
con l'ausilio della Mercedes. Troppi ostacoli, case, traffico, svolte e
giravolte... Avrei avuto bisogno di un'autostrada per seminarli, ma
non ce n'era una vicina e disponibile. Qualcosa però avrei potuto
fare. Il primo passo consisteva nel mettere un altro poco di spazio
tra me e la macchina inseguitrice.
Accelerai ancora e la ragazza, sempre accoccolata, si irrigidì
mentre filavo come una freccia, sorpassando altre auto con dei
guizzi paurosi ed evitando collisioni solo per un pelo.
— Perché non vi costituite? — mi domandò infine. — E'
sempre meglio che accopparsi. Se vi degnate di prendere in consi-
derazione che ci sono anch'io e che non ho alcuna voglia di morire
ammazzata.
— Fate quel che vi dico e vedrete che tutto andrà bene — le
risposi.
Stavo raggiungendo un treno espresso che cominciava ad au-
mentare la velocità, e fui pure in grado di leggere la scritta sul
fianco dei vagoni: "BERLIN-HAMBURG-SCHNELIZUG". Filava
forte, per essere in città. Dovetti accelerare ancora per oltrepassarlo.
La Lancia per ora stava un po' indietro, ma sapevo che non mollava.
La ragazza dal faccino spiritoso mi fissò tra le palpebre socchiuse.
Sapevo che stavo rischiando forte e tra l'altro non ero sicuro di far-
cela.
Come scorsi a qualche centinaio di metri un incrocio di binari,
schiacciai l'acceleratore a tavoletta e osservai il tachimetro che sali-
va vertiginosamente. Ormai eravamo quasi addosso alle rotaie. Mi
volsi a guardare il treno in arrivo.
— Rimettetevi sul sedile — dissi alla ragazza, che mi obbedì.
— Non appena ve lo dirò, schizzate fuori e attraversate i binari co-
me un fulmine, capito? Mi raccomando bambina, non gingillatevi se
volete mantenervi in vita.
31
Non fece commenti. Non ce n'era bisogno. Aveva visto anche
lei il treno espresso che arrivava all'incrocio. Sentii che le dita quasi
mi scivolavano giù dal volante, perché sudavano. Ma mi sentivo pu-
re pieno di crampi. Agitai per un po' la destra, poi la sinistra, e
infine impugnai lo sterzo con decisione. Fermai la macchina proprio
in mezzo ai binari e gridai:
— Fuori!
Lei aveva già spalancato la portiera. Intravvidi il suo sederino
che guizzava via e mi precipitai alle sue calcagna, lasciando la Mer-
cedes dove stava. Oltrepassate le rotaie la presi per mano e la
costrinsi a correre.
Ci eravamo appena allontanati quando la locomotiva investì la
Mercedes. Si udì un cozzo tremendo, poi una enorme lingua di fuo-
co si sollevò davanti al treno. Pareva che fosse avanzato un drago
sputafuoco.
La ragazza liberò la mano e si volse a guardare la massa in-
fuocata che il treno sospingeva ancora e che si trascinò avanti per
qualche metro.
— La mia macchina! — gridò.
La ripresi per mano e la costrinsi a seguirmi. Non dovevamo
fermarci lì. Ormai la Lancia era certo arrivata sulla scena del cosid-
detto incidente e se ne stava bloccata dall'altra parte del treno. I suoi
occupanti avrebbero dovuto pensare che avevo calcolato male e che
adesso mi trovavo tra le fiamme anch'io e mi sarei incenerito insie-
me alla mia compagna occasionale. Sorrisi soddisfatto e rallentai un
po' quando ebbi raggiunto un crocevia dietro il quale ripararmi.
— Ve ne comprerò un'altra — promisi.
Lei se ne stette lì a fissarmi ansante e cercò di riprender fiato.
Aveva una macchia di sporco in faccia e i capelli in disordine, ma
guardandola bene l'apprezzai sempre più, non solo per il suo bel
musetto e la figura da mannequin, ma per il controllo meraviglioso
che stava mostrando. Avrebbe dovuto cavarmi gli occhi, chiamare
aiuto o qualcosa di simile. Invece si mostrava assai sportiva. Mi
studiò a lungo con i suoi bellissimi occhi cangianti.
— Non siete un disertore — disse infine. — Non so chi siate,
ma sono sicura che...
— Brava, andate dal capoclasse che vi assegnerà un bel voto.
32
— Ma cosa siete? Un gangster? Non ne avete l'aria, direi. Op-
pure uno svitato?
— Parlate molto bene l'americano, per essere tedesca.
— Infatti vado sempre a vedere le vostre pellicole in edizione
originale, tanto per tenermi in esercizio.
— E ora datemi il vostro nome e il vostro recapito, così vi
manderò il rimborso per la macchina distrutta.
Ricominciò a studiarmi bene, come se fossi un esemplare raro
e incredibile sotto la lente di un microscopio. Mi sarebbe piaciuto
avere il tempo di starmene un po' in sua compagnia. Non era soltan-
to bella. Aveva pure un'aria divertita e strafottente, a dispetto
dell'emozione provata. Poteva anche essere un'incosciente, ma...
— Non riesco ancora a crederci — disse infine scuotendo il
capo. — Quel che è accaduto lo so, l'ho visto con i miei occhi. E ne
sono stata pure protagonista. Ma non riesco a crederci. E adesso mi
offrite il rimborso per la macchina distrutta, come se mi aveste
smagliato una calza o fatto uno strappo in una manica. Però non mi
dite nulla di voi, né mi spiegate cosa diavolo...
— Tesoro mio, anzitutto non ho tempo — le dissi un pochino
spazientito. Avevo una dannata fretta davvero, infatti. — Ma se mi
date il vostro nome e indirizzo sarete rimborsata senz'altro.
Scosse il capo ancora una volta, come se volesse schiarirsi le
idee.
— Non so proprio perché — disse infine — ma credo che lo
farete davvero.
— Ho una faccia che ispira fiducia — ribattei con un sorriso
un po' fatuo.
— No, avete una faccia affascinante — mi corresse. — Ma
potreste essere chiunque, da un angelo vendicatore a un superladro
di gioielli.
— Decidete voi, bellezza. Ma ora datemi il vostro nome per-
ché sono già maledettamente in ritardo.
— Mi chiamo Lisa. Lisa Huffmann. La macchina appartiene a
mia zia ed è intestata a lei. Io sono qui solo di passaggio, ma se
manderete l'assegno a me glielo girerò. Dunque, Lisa Huffmann,
Kaiserlautern Strasse n. 300.
— Contateci.
33
— La cifra corrisponde a cinquemilacinquecentoquarantasei
dollari americani — mi annunciò tranquilla. — Era una macchina
nuovissima.
— D'accordo. — Osservandola mi venne voglia di incontrarla
ancora, ma non ero in grado di ripromettermelo.
— Inoltre c'erano nove dollari e trenta cents di provviste che
mi toccherà ricomprare.
— Cara bambina, se appena appena mi sarà possibile, vi por-
terò i quattrini di persona — le promisi con una risata.
Poi la lasciai là sull'angolo e feci un cenno ad un tassì che
passava. Mentre l'auto si rimetteva in moto le feci un cenno di salu-
to agitando il braccio. Non me lo restituì. Se ne stette a fissarmi a
braccia conserte. Mi avrebbe deluso se avesse agitato il braccio
come una scioccherella.
4
Il quartier generale dell'AXE a Berlino Ovest aveva una copertura
legittima sempre, e nessuno, all'infuori di un paio di membri dell'a-
genzia, sospettava che là dentro si svolgessero attività estranee a
quella che figurava sulla targa. Inoltre veniva presa la precauzione
supplementare di cambiar sede e "attività" ogni nove mesi. I capoc-
cioni dell'AXE venivano informati dello spostamento ogni volta, e
delle necessarie parole d'ordine che bisognava usare nonché delle
procedure per farsi ricevere.
Scesi dal tassì e mentre pagavo diedi un'occhiata al modesto
palazzetto d'uffici. A lato del portone figurava una fila di targhe. Il
mio sguardo si soffermò sulla prima in basso, che annunciava:
"BERLIN BALLET SCHULE". Sotto, a lettere più piccole, si leg-
geva: "Direktor-Herr Doktor Prellhaus".
Sorrisi. Si trattava certo di Howie Prailler. Howie aveva il
compito di stabilire e mantenere tutte le coperture dell'AXE sul tea-
tro europeo. Aveva una linea speciale di contatti e uno specialisti-
mo talento per allacciarli. Lo avevo incontrato un paio di volte in
passato.
Presi l'ascensore e mi ritrovai in un grande stanzone illumina-
to dove una quindicina di giovani Fräulein dai dodici ai vent'anni si
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allenavano a piegamenti e spaccate ineccepibili, inchini e piroette
sulle punte. Vidi che c'erano pure quattro ragazzetti, e tre insegnan-
ti, due maschi e una femmina. Indossavano tutti quanti la calzama-
glia e lavoravano di lena. Il mio ingresso passò inosservato a tutti
fuorché alla morettina che sedeva a un tavolo accanto all'uscio. Mi
fece un cenno e mi avvicinai.
— Desiderate?
— Ho appuntamento con Herr Doktor — le risposi. — Sono
venuto per quell'articolo sulla scuola.
Fui molto accurato, perché i tedeschi tengono moltissimo ai
titoli e alle qualifiche. Se uno è Herr Doktor, guai a voi se non lo
chiamate così. In Europa si usa ancora dare importanza a certe cose.
Credo che sia un retaggio dei tempi in cui i titoli significavano
parecchio.
La donna sollevò il ricevitore, premette un pulsante e parlò
con qualcuno. Poi mi guardò e si degnò di sorridermi con un angolo
delle labbra.
— Entrate pure — mi concesse. — L'altro signore dello studio
fotografico è già arrivato. E' in fondo al corridoio, penultima porta.
Seguii il suo sguardo e intravvidi una porta aperta nella parete
opposta che conduceva appunto in un corridoio stretto. Scostando
fanciulle piroettanti e inciampando in qualche piede, riuscii a farmi
largo tra le ballerine in erba e a imboccare il passaggio e trovare l'u-
scio indicato, che si apriva su di un piccolo ufficio. Bastò un'oc-
chiata rapida all'isolamento dei muri e del soffitto per capire che là
dentro nessuno ci avrebbe sentiti. Hawk stava sprofondato in una
poltrona di cuoio e Howie Prailler era dietro la scrivania. La do-
manda che il vecchio mi rivolse subito mi diede l'idea ancora una
volta della sua esperienza, della sua preoccupazione, e dell'ansia che
aveva provato nei miei riguardi.
— Cos'è accaduto?
Rivolsi un rapido cenno di saluto a Howie, che rispose con un
sorriso altrettanto rapido. Pure lui aveva l'aria preoccupata.
— Avevo degli angeli custodi — spiegai a Hawk per giustifi-
care il ritardo.
— Accidenti, così presto? — mi domandò senza mutare
espressione. Soltanto la voce denunciava il suo stupore incredulo.
35
— E' proprio quello che mi sono detto anch'io — gli risposi.
— E prima di venir qui li avete seminati, immagino.
— Macché, sono fuori che mi aspettano. Ho promesso loro
che vi avrei condotto fuori con me.
A volte lo trovavo irritante, quando diceva delle cose ovvie.
Ma lui ignorò il mio sarcasmo. Lo faceva sempre quando capiva che
volevo prenderlo in giro.
— Come avete fatto a seminarli?
— Sono convinti, almeno per ora, che abbia fatto male i miei
calcoli nell'attraversare in macchina i binari dell'espresso Berlino-
Amburgo.
— Cosa?
Gli raccontai l'accaduto e lui mi ascoltò con la massima atten-
zione sino alla fine.
— Per un pelo, Numero Tre — commentò.
— Per una minuscola frazione longitudinale di pelo, ad essere
esatti — convenni. — Vorrei tanto sapere quando hanno cominciato
a pedinarmi. Io me ne sono accorto solo qui, ma può darsi...
— Vorrei saperlo anch'io — ribadì Hawk. — Possiamo capire
come abbiano fatto a beccare Ted Dennison che lavorava in Germa-
nia, ma non riesco a immaginare perché vi hanno trovato e pedinato
così presto. Non ancora, perlomeno. E la cosa mi dà un gran fasti-
dio, a dire il vero.
— Non posso negare che dà fastidio pure a me — borbottai.
Howie Prailler trattenne un sorriso, ma gli occhi d'acciaio di
Hawk si mantennero gelidi come sempre.
— Sedete, Nick — disse infine. — E' meglio che vi dica quel
che abbiamo appreso sino a questo momento. Più rifletto su questa
faccenda e meno mi piace. Vi dice nulla il nome di Heinrich Dreis-
sig?
Qualcosa sapevo, di quel tipo, giusto quel tanto che un qualsi-
asi lettore di giornali riesca ad apprendere.
— Se non erro è quel capo di quel nuovo movimento politico
tedesco, no? "NSH" o qualcosa di simile.
— Giusto. Un movimento di estrema destra che si fa chiamare
"Neue Stadt Herrenvolk Partei"; ed è inutile che ve ne traduca il si-
gnificato, vero?
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— Sì, il Partito Popolare del Nuovo Stato.
Era una versione un po' arbitraria perché in inglese non esiste
una parola che equivale a "Herrenvolk". I tedeschi, con la loro pas-
sione per le parole composte, riuscivano a darle un significato
particolare, ma "Signori dei Popolo" avrebbe fatto ridere in qualun-
que lingua. Così pure "Elite di popolo", che oltre a tutto non era
nemmeno appropriato. Per i tedeschi però, e per chiunque li cono-
scesse abbastanza, voleva dire "popolo superiore". Il che puzzava
assai di quella vecchia lagna hitleriana sulla razza superiore senza
proprio dirlo apertamente. Un delicato eufemismo politico, insom-
ma. In parole povere, nazismo.
— Bene, adesso vi illustro un po' la faccenda, tanto per chia-
rirvi le idee — continuò Hawk. — Questo Heinrich Dreissig e il suo
NSH circolano da qualche tempo sotto le spoglie di un gruppo ausi-
liario. Ma sette od otto mesi fa hanno cominciato a uscire dalle
quinte e ad alzare la crestina. Adesso si trovano in pieno palcosce-
nico e si agitano mica male. Hanno smesso di far la parte delle
comparse e hanno intonato il coro greco. Nelle ultime elezioni han-
no vinto una quarantina di seggi al "Bundestag" grazie alla campa-
gna efficace che hanno condotto. Può anche non sembrarvi gran
che, ma quaranta seggi su quattrocentonovantano-ve rappresentano
quasi il dieci per cento. Prima ne avevano soltanto tre, quindi hanno
fatto un bel balzo. Voi che sapete come va la politica in casa nostra,
non faticherete a indovinare cosa ci vuole per conquistarsi tanti voti.
— Certo che lo indovino. Ci vogliono tanti bei soldoni, ma
tanti.
— Proprio così. — convenne Hawk. — E da allora hanno tri-
plicato il numero degli iscritti, hanno continuato a farsi propaganda
ed hanno migliorato ancora la loro posizione. Il bravo Dreissig ha
devoluto gran parte del suo tempo ai discorsi politici, che si sono
fatti sempre più aspri e aggressivi. Vedete, questo tizio ed il suo
partito ci fanno paura, e per diversi motivi. Sappiamo che sono di
idee estremiste, nazionalistiche all'eccesso. Abbiamo capito benis-
simo che si tratta di neo-nazisti e immaginiamo che siano troppo
furbi per buttarsi nella mischia e che preferiscano lavorare sott'ac-
qua, almeno sino a quando non saranno pronti a fare una mossa
decisiva e di sicuro successo. Sappiamo pure che potrebbero scon-
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volgere l'equilibrio delicatissimo delle relazioni europee nonché
quello delle relazioni tra noi e i russi e tra est ed ovest. Questo equi-
librio è assai fragile e basta un niente per farlo precipitare. La
nascita e il successo di un partito nazista forte potrebbe provocare
un'infinità di ripercussioni dovute alla paura, al sospetto o a un erro-
re di valutazione. E noi non possiamo permetterlo. Ci consta che
l'NSH e Dreissig stanno preparando un colpo, e dobbiamo scoprirne
la natura. Ecco perché è essenziale cercar di sapere dove si procura-
no tanto denaro. Chi li finanzia? Conoscere la sorgente di quei
quattrini ci aiuterà a conoscere anche i loro piani.
— Ted ci era riuscito dunque, e stava per passarmi le infor-
mazioni raccolte — conclusi.
— Proprio così, Numero Tre — rispose Hawk. — E hanno
fatto in modo che non riuscisse a trasmettervele. Però ho la speranza
che un'altra persona sia a conoscenza di parecchie cose. Anzi, sono
quasi certo che sia stato lui a informare Ted Dennison. Si tratta di
un nostro agente che opera nella Germania Orientale. Uno di quelli
che teniamo a "dormire". Non possiamo rischiare di trasferirlo. Per-
ciò dovrete andare voi a fargli visita.
— Mi consta che i sovietici controllano assai bene il traffico
da e per Berlino-Est, perciò sarà necessario far molta attenzione —
osservai.
— E' vero. Questo è il più grosso problema da affrontare —
convenne Hawk. — Come farvi penetrare oltre il muro senza destar
sospetti. Questa faccenda è schizzata fuori così all'improvviso che
non abbiamo ancora avuto il tempo di pensarci su. Ma forse il vo-
stro cervellino fertile butterà fuori un paio di idee apprezzabili.
Howie sarà in grado di procurarvi tutti i documenti falsi che vi pos-
sono occorrere; non è affatto difficile. Ciò che conta è trovare un
motivo plausibile, così non vi guarderanno con troppo sospetto alla
Porta di Brandeburgo, né vi terranno d'occhio una volta a Berlino-
Est. Howie studierà anche questo particolare. Domattina vi vedrete
ancora, voi due, e prenderete gli ultimi accordi. Io questa sera debbo
prendere l'aereo delle sei a Tempelhof.
Hawk si alzò.
38
— D'ora in poi il pesce è vostro e vi toccherà arrangiarvi a
friggerlo — mi disse. — Dobbiamo sapere ad ogni costo chi finan-
zia quel Dreissig, e dopo sapremo che progetti sta covando.
— Un momento, prima di andarvene firmatemi un assegno
per la macchina di quella ragazza.
— Ve lo manderò da Washington — promise lui. — Mi oc-
corre l'autorizzazione della tesoreria, e debbo fare una richiesta
regolare di fondi. Diamine, non sono autorizzato a circolare per il
mondo firmando assegni per cinquemila dollari!
— Sapete che potete farlo benissimo — ribattei con un som-
setto. — Non mettetevi a creare delle difficoltà che non esistono, vi
prego. Se non fosse per quella macchina che ho dovuto distruggere
di proposito, non sarei qui. Volete proprio mettervi a cavillare per
poche migliaia di dollari?
Non ignoravo infatti che l'AXE era sempre in grado di racco-
gliere fondi ovunque in caso di emergenza. E le emergenze erano
parecchie: la fretta, la necessità di comprare certe testimonianze, o
quella di allungare alcune bustarelle impreviste; senza contare vari
imponderabili che potevano sorgere da un momento all'altro, come
quello della Mercedes sacrificata di Lisa Huffmann. A questo scopo
una banca svizzera custodiva un deposito che copriva il fabbisogno
dell'AXE per l'area europea. Perciò era inutile che mi venisse a rac-
contare delle storie da povero poverello. Ma lui ci provava sempre,
anche se non attaccava. In fondo questa era la ragione per cui anda-
vamo sempre d'accordo. Entrambi cercavamo a turno di batterci l'un
l'altro in furberia, ma il nostro era diventato una sorta di passatempo
sportivo, e da buoni sportivi non ci mettevamo alcuna cattiveria. La
nostra era una gara sottile, la gara tra due cervelli non comuni che si
rispettano a vicenda. Sapevo che Hawk era sempre riluttante a scia-
lacquare i fondi dell'AXE per non incoraggiare il suo gregge a
comportarsi in modo poco riguardoso verso i quattrini. Ma non c'era
mai nulla di personale in quell'atteggiamento. Sapeva benissimo che
i suoi operatori non buttavano via i soldi per principio o per incuria
o per capriccio. No, penso piuttosto che la sua parsimonia fosse più
che altro dovuta al ricordo dell'educazione rigida che gli avevano
dato nella Nuova Inghilterra.
39
— Perché non vi siete pescata una ragazza con una Volkswa-
gen? — bofonchiò infine, tirando fuori il libretto degli assegni. —
Dovreste cercare di scordarvi un po' dei vostri gusti costosi.
— Oh, lo farò senz'altro. Non appena me ne sarò andato all'al-
tro mondo, vi assicuro che i miei gusti diventeranno semplicissimi.
Prima che scrivesse la cifra sull'assegno gli dissi che doveva
aggiungervi pure i nove dollari e trenta di provviste, e lui alzò gli
occhi a fissarmi.
— Be', siamo fortunati — commentai.
— In che senso? — mi domandò piano, sbirciandomi sempre
di sotto le lenti.
— Avrebbe potuto far compere al "Der Deutsche" che è l'e-
quivalente del nostro Tiffany.
Hawk mi tese l'assegno.
— Immagino che dovrei essere felice perché non siete morto
— disse in tono secco. — Be', la prossima volta cercate di stare un
po' più attento.
Da parte di Hawk questa era già una vivissima prova d'affetto,
e assentii. Il vecchio in fondo non mancava di sentimento. Solo che
lo nascondeva così bene da costringervi a far dei sondaggi per sco-
varlo fuori.
Salutai Howie Prailler e tornai a farmi largo tra le ballerine
per andarmene. Nell'intascare l'assegno avevo sfiorato con le dita la
chiave di Helga. Subito pensai alla Vichinga bionda. Bene, se dove-
vo ritrovarmi l'indomani con Howie ero costretto a trattenermi per
la notte. Mi veniva dunque offerta l'opportunità di passare qualche
ora con lei. Niente male come idea. E poiché dovevo escogitare il
sistema per infilarmi oltre il Muro, chissà che la ragazza non fosse
in grado di aiutarmi in qualche modo. Abitava lì e non sembrava af-
fatto stupida.
Ma prima dovevo occuparmi di Lisa Huffmann. Questa evocò
una diversa serie di riflessioni. Avevo trascorso ben poco tempo con
lei, e in verità si era trattato di un'avventura ben poco romantica,
date le circostanze. Però quella figliola aveva mostrato una padro-
nanza di sé e tanto buon gusto da affascinare anche la mente, oltre
che i sensi. Mentre Helga... be', Helga era un corpo e basta. Era riu-
scita a sconcertarmi un po', dopo l'amplesso, e c'era ancora qualcosa
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in lei che mi lasciava insoddisfatto. Ma nulla che andasse in profon-
dità.
Oltrepassai a piedi alcuni isolati e tenni gli occhi ben aperti,
memore della passata avventura con gli angeli custodi. Accertatomi
che nessuno mi seguiva, fermai un tassì di passaggio e vi salii.
Ammirai, le vetrine eleganti della Kurfürstendamm che mi sfilava-
no ai lati; erano simili a quelle di tutte le capitali del mondo, salvo il
fatto che Berlino non era più una capitale, anche se da questa parte
ne aveva mantenuto il carattere. L'opera di ricostruzione era davve-
ro fantastica, aveva del miracoloso. Alla fine della seconda guerra
mondiale il novanta per cento almeno degli edifici di quella via era-
no distrutti o gravemente danneggiati, e tutte le strade sconvolte.
Ora gli edifici erano risorti, non solo, ma avevano costruito duecen-
tomila case nuove. Ogni frammento utilizzabile era servito alla
ricostruzione. La città era davvero una fenice risorta dalle proprie
ceneri, un po' come Rotterdam – vittima d'un nemico diverso, ma
altrettanto martirizzata.
Non potei fare a meno di rivolgermi qualche domanda su
Heinrich Dreissig e il suo partito neo-nazista. Era impensabile che
la Germania odierna permettesse a quella fenice di odio di risorgere
dal passato. Molti del resto non riuscivano a credere che certe cose
fossero accadute. Però erano accadute davvero. E i tedeschi erano
sempre tedeschi, con tutto il loro inguaribile revanscismo e la loro
romantica follia.
Al n. 300 di Kaiserlautern Strasse scesi dal tassì e mi trovai di
fronte a una casa piuttosto modesta, da ceto medio. Diedi un'oc-
chiata alle cassette della posta nell'androne. Notai un cartoncino
applicato con lo scotch-tape che portava i nomi di Huffmann e
Detweiner e andai a suonare alla porta corrispondente.
Venne ad aprirmi lei in persona. Aveva un vestito bianco-cre-
ma, di stoffa morbida, che le aderiva alla figura in modo delizioso
accentuando la sua linea snella da mannequin. L'abito metteva in
mostra pure i seni rivolti all'insù, piccoli e perfetti. Quando mi rico-
nobbe spalancò gli occhi e scosse il capo.
— Sorpresa? — le domandai con un sorriso.
— Be', sì e no... — mi rispose. — Certo non mi aspettavo di
rivedervi così presto.
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— Purtroppo non ho molto tempo — le dissi porgendole l'as-
segno. — Vi ringrazio ancora per avermi prestato la macchina.
— E' un modo di dire come un altro.
Lisa Huffmann esaminò il pezzetto di carta con una lieve ruga
di perplessità sulla fronte liscia. Era impersonale, un numero che
corrispondeva ad un deposito numerato in una banca svizzera. Im-
possibile capire chi lo emetteva. Notando la sua incertezza la
rassicurai.
— Non è un assegno fasullo.
— Grazie — mi rispose, poi mi studiò da capo a piedi con
evidente curiosità. — E voi siete sempre l'uomo del mistero, non è
così? Non conosco nemmeno il vostro nome. E' sempre verboten?
Risi.
— Credo di no. Mi chiamo Nick. Nick Carter.
Avrei voluto dirle dell'altro. Avrei voluto pure trattenermi un
pochino, ma se l'avessi fatto le cose si sarebbero complicate ancor
di più. Per ora bastava Helga. Inoltre avevo una missione da com-
piere che non mi lasciava troppo tempo disponibile. Ma avevo una
gran voglia di rivedere quella bella creatura.
— Noterete che non ho dimenticato di includere il danaro del-
le provviste — le dissi tutto compunto.
— Sì, ho visto.
— Sentite, vi assicuro che non appena mi sarà possibile vi
spiegherò tutto, ma sino a quando l'occasione non si presenterà
dovrò continuare a fare il misterioso. Vogliamo accantonare, nell'at-
tesa?
— D'accordo. Sino a quando?
— Vorrei potervi rispondere, ma purtroppo non ne sono in
grado. Però mi riprometto di farmi vivo, prima o poi. Vi tratterrete
un po' da vostra zia?
— Ancora una settimana circa. Ma vi confesso che se aveste
bisogno di sei mesi per raccontarmi le vostre straordinarie avventu-
re, sarei tentata di aspettare, tanto sono curiosa.
Si vedeva che era curiosa. Del resto, essendo femmina... Si
controllava benissimo, ma avevo l'impressione di vedere le rotelli-
ne che giravano svelte nella sua scatola cranica. E vedevo la curiosi-
tà anche nei suoi occhi.
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— Siete un tipo davvero insolito, Lisa Huffmann — dichiarai
infine con una nota di ammirazione nella voce. — Non avete pro-
prio nulla della Fräulein normale.
— Oh, quanto a questo, vi posso garantire che neanche voi
sembrate il tipo dell'americano medio.
Mi inchinai e mi volsi per andarmene. Scesi un paio di gradi-
ni, poi li risalii con un balzo, l'afferrai e la strinsi tra le braccia. La
baciai, e per un po' le sue labbra rimasero fredde. Non si ritrasse ma
non rispose nemmeno al bacio. Solo per un attimo le socchiuse un
poco, come se volesse darmi un'idea di quello che avrebbe potuto
essere.
— Non volevo che mi dimenticaste — le dissi a guisa di spie-
gazione.
— Be', non siete un tipo facile da scordare, direi. Anche senza
questo. — Nei suoi occhi danzò un lampo lievemente motteggiato-
re. — Un uomo come voi si impone da sé.
Stavolta me ne andai. Sul pianerottolo mi girai a sorriderle, e
lei abbozzò un cenno di saluto con la mano, un cenno breve e riser-
vato, solo un piccolo guizzo delle dita. Mi sentii meglio quando
raggiunsi il marciapiede di Kaiserlautern Strasse. Come dovrebbero
sentirsi tutte le persone oneste che hanno pagato un debito. Mi rin-
cresceva sempre coinvolgere gli innocenti nello sporco gioco che la
mia professione mi costringeva a fare. Spesso era necessario, tutta-
via non lo facevo mai volentieri, né lo nascondevo al mio capo, che
mi accusava di arretratezza e mi prendeva un po' in giro quando ne
discutevo con lui. "Gli innocenti non esistono più" mi diceva. "Oggi
come oggi sono tutti coinvolti. Qualcuno se ne rende conto e qual-
cuno no, ma ci stanno dentro tutti lo stesso."
In un certo senso era un'ironia, perché proprio lì in Germania
Adolf Hitler aveva dichiarato a gran voce che i borghesi non esiste-
vano più, che tutti in un modo o nell'altro erano soldati del Terzo
Reich, dalle massaie ai bimbi, dai contadini agli operai, sino alle
truppe in prima linea. I sovietici e i comunisti cinesi si erano affret-
tati ad abbracciare con zelo quella teoria che serviva benissimo ai
loro scopi. In tal modo non c'era più bisogno delle decisioni morali.
Con una mentalità del genere era facile e giustificabile far saltare in
aria un battello pieno di passeggeri per colpire un solo uomo. Hawk
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lo sapeva benissimo, vecchio com'era del mestiere, e affermava che
dovevamo guardare le cose dal loro punto di vista per capire i nemi-
ci e spiegarci le loro azioni.
Intanto che riflettevo sui russi e sui cinesi decisi di andare a
piedi a casa di Helga. Mi domandai chi dei due finanziava Dreissig
e il suo partito. Mi sembrava un po' balorda la teoria che i comunisti
agevolassero la rinascita di un movimento neo-nazista. Ma ormai i
politicanti di tutto il mondo si erano fatti così machiavellici che non
c'era più da stupirsi di nulla. Era persino possibile che gli uni o gli
altri fossero così in gamba da appoggiarli per poi avere un pretesto
per intervenire. Quanto a machiavellismo, i cinesi erano forse più
sospetti dei sovietici. Avevano tanti di quegli agenti sparsi per il
mondo che riuscivano ad avvelenare l'esistenza sia a noi sia ai loro
ex compagni russi. Agivano in base alla vecchia teoria secondo la
quale in mezzo al caos si operava meglio e con maggior successo.
Poi c'era la possibilità tutt'altro che remota di un gruppo di grossi
magnati dell'industria che finanziasse Dreissig con lo scopo di in-
staurare ancora una volta nella Madre Patria il vecchio sistema.
Germania unita, naturalmente, Germania che sventolava la bandiera
infuocata dell'ancestrale nazionalismo militaresco alla prussiana.
Di industrialoni nostalgici ne erano rimasti parecchi. Forse era
quella la teoria più accettabile, tutto sommato. Che diamine, c'è più
nazionalismo nel mondo oggi di quanto non ne esistesse prima della
guerra. Su una grossa potenza che parla in termini di internazionali-
smo, ce ne sono almeno dieci, piccole o nuove, che sbandierano a
gran voce i propri sentimenti patriottici. Non c'era quindi da stupirsi
che fossero i tedeschi ad esibirli. Visto il passato dei bravi teutoni e
la storia della Germania, non era soltanto naturale, ma addirittura
doveroso.
Buffo, i due lati più salienti del carattere nazionale tedesco si
potevano sommare in due tipi di musica: la marcia e il valzer. Li
amavano con la stessa passione e reagivano ad entrambi con la me-
desima intensità.
Dopo l'ultima guerra avevamo fatto in modo che fosse solo il
valzer a caratterizzare l'animo tedesco, ma ora Dreissig stava per
rimettere di moda le marce. E se ci metteva tanto bel fiato, nei suoi
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tromboni, la gente si sarebbe rimessa a marciare di nuovo. In fondo
non aspettava che il la.
Giunsi davanti alla casa di Helga e constatai che abitava al
quarto piano senza ascensore.
Decisi di bussare alla sua porta. Mi aveva dato la chiave, ma
forse il suo era stato solo un gesto formale.
5
Sembrava proprio la giornata delle sorprese, quella. L'autentico sba-
lordimento che scorsi negli occhi di Helga, quando venne ad
aprirmi, annullò addirittura lo stupore che Lisa aveva manifestato.
Ma subito, prima ancora che io potessi aprir bocca, gettò un grido di
gioia e mi gettò le braccia al collo, soffocandomi in una stretta da
mamma-orsa e premendomi i seni imponenti contro il petto. Quan-
do infine si ritrasse, vidi nei suoi occhi ancora un'ombra di
incredulità.
— Ma scusa, non mi avevi dato la chiave? — le domandai un
po' sconcertato.
— Sì, ma non credevo che saresti venuto davvero — mi rispo-
se, invitandomi ad entrare.
— E perché?
— Be', voi americani avete un famoso detto, "Prendile e la-
sciale", non è vero? E io pensavo che tu fossi passato ad altre
avventure.
— Ti sottovaluti — la rassicurai. — E del resto non si deve
mai dar troppo credito ai detti popolari. Si dà il caso che io sia un
tipo fedele.
Mi si strinse addosso e mi posò il capo sulla spalla.
— Oh, sono molto felice che tu sia qui — mi disse con voce
rauca.
Le misi un braccio attorno alle spalle e diedi un'occhiata rapi-
da all'alloggio. Era piccolo e piuttosto borghese, del tutto privo di
personalità. Aveva l'aria di essere un appartamentino ammobiliato
senza una minima aggiunta di note personali. La cosa mi stupì.
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— Puoi fermarti un po'? — mi domandò Helga, riportando la
mia attenzione su quei seni superbi che cercavano di perforarmi lo
stomaco.
— Soltanto questa notte.
— Allora dovremo cercare di trarne il meglio, da questa sin-
gola notte — decise. Ora i suoi occhi si erano incupiti ed io vi
ritrovai quella luce torbida di desiderio animalesco. Cominciò subi-
to a farmi un po' di massaggi sulla pelle, infilandomi le dita entro la
camicia e alternando le carezze alle strizzatine.
— Stavo per cenare. — Sospirò, un po' mortificata. — Non ho
altro che del brafwurst, purtroppo, ma ce n'è abbastanza per due.
Dovrai accontentarti. E dopo ci occuperemo dell' altro appetito.
Si allontanò ed io la seguii nella cucina e mi misi a tavola con
lei.
Mentre mangiava mi parlò della sua giornata in ufficio e mi
domandò cos'avevo fatto io. Le dissi che avevo compiuto alcune
visite d'affari, ma che avevo cercato di procurarmi un po' di tempo
libero per andare a trovarla. Mi versò della birra, e dopo il pasto
anche un bicchierino di "schnapps". Mi sembrò di bere fuoco liqui-
do. Lei lo buttò giù con la massima disinvoltura. Notai che si era già
slacciata i bottoni della camicetta. Stavolta portava un reggiseno di
pizzo e lo stava mettendo in mostra. Le sue intenzioni erano inequi-
vocabili. Terminato di bere, si alzò e mi si avvicinò, fermandosi a
strusciarmi quasi il volto con quel davanzale superbo. Mi passò le
dita tra i capelli e mi parlò con voce da gattona.
— Sai, per tutto il giorno non ho fatto che pensare alla notte
scorsa — disse, sempre facendomi annusare colline e valli. — Sei
stato così meraviglioso... — mi prese il capo tra le mani e mi fissò
negli occhi. — E sei così diverso da tutti, così speciale. Sai, io non...
non mi attacco mai a nessuno, ho sempre avuto delle avventure di
passaggio, brevissime.
— Amali e lasciali, eh?
Ne ero convinto. Infatti me lo aveva dimostrato la sera prima,
piantandomi in asso a quel modo.
Le slacciai il reggiseno e cominciai ad accarezzarle i capezzo-
li. Helga mugolò.
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— Mi sono detta che anche stavolta sarebbe stata una cosa da
dimenticare — disse con voce tremante. — Ma appena ti ho rivi-
sto... il ricordo di ieri mi ha soverchiato. Oh, Nick, ti voglio ancora!
Anch'io mi sentii soverchiato dalla sensualità violenta di quel-
la femmina che non riusciva a controllare il proprio desiderio e me
lo trasmetteva senza spreco di inutili pudori. Ma stavolta volevo ve-
dere se sarebbe andata diversamente, se sarei riuscito a possederla
senza provare quella fastidiosa sensazione di venir strumentalizzato
soltanto. Continuai apposta a prolungare i preliminari, e lei divenne
ansiosa, vibrò, mi incollò le labbra alle labbra, la persona alla per-
sona, mi sfiorò la pelle con un gioco sapiente delle dita.
Infine mi trascinò in una piccola stanza da letto e non accese
la luce. Solo dalla porta aperta un po' di riflesso dal soggiorno piov-
ve sul letto. Vidi che Helga si strappava di dosso la camicetta e la
faceva volare lontano. E mentre si svestiva frenetica continuava a
baciarmi con una furia febbrile.
E riecco quel bisogno, quella bramosia famelica che mi aveva
già impressionato il giorno prima. Ancora una volta mi dissi che
Helga faceva all'amore come se fosse stata sicura di morire all'in-
domani e volesse approfittare dell'oggi mettendoci tutta la forza
della disperazione. Non mi abbandonava, aggrediva con la rabbia di
un rapinatore a mano armata. La cosa mi stupiva, ma poiché la mia
assalitrice frattanto mi aveva aiutato a sfilarmi i pantaloni, mi decisi
a mandare al diavolo tutte le introspezioni e le psicoanalisi per col-
laborare. Il tempo di riflettere l'avrei avuto in seguito, se mai.
Terminato di svestirmi la osservai e vidi che stava sul letto
supina, con gli occhi chiusi. Non mi guardava, continuava ad ansare
e a rincorrere la meta con l'immaginazione. Quella meta di cui io
ero il mezzo, lo strumento. Come personalità non esistevo affatto.
Ne approfittai per avvolgere Wilhelmina e Hugo tra gli indumenti,
poi mi coricai al suo fianco. Ricominciai ad accarezzarla nei punti
più sensibili e lei gridò, sempre ad occhi chiusi, premendo le mie
mani sulla sua carne e agitandosi come un'ossessa. Poi mi si buttò
addosso, mi investi con tutta la sua mole, schiacciandomi come se
volesse distruggermi. Mi ritrovai la punta di un seno in bocca e
morsi. Poi presi il sopravvento io e le balzai addosso. Non fui. mol-
to gentile, questa volta. Non era proprio il caso di avere dei riguardi,
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visto come s'era scatenata nella sua furia erotica. La possedetti con
brutalità, una brutalità che lei apprezzò e continuò a sollecitare, in-
coraggiandomi con quei ritmici sussulti che infine si risolsero nel
famoso grido sorto dai precordi. Poi si irrigidì e ricadde all'indietro
sfinita. Io non mi mossi, e un momento dopo mi si aggrappò ancora,
mugolando:
— Non andartene, Nick, stai qui... Ti voglio, ti voglio, ti vo-
glio...
Non me ne andai. Helga non aprì gli occhi mentre la riportavo
una seconda volta verso le sommità vertiginose dell'estasi. Si limitò
a guaire, a scuotere la testa bionda a destra e a sinistra, a ridere e
gemere per un piacere che sembrava al di là della sua comprensione
e della sua capacità di assorbimento. Se si fosse trattato di un'altra
donna mi sarei sentito un po' sadico nel brutalizzarla in quel modo.
Ma con lei ero violento di proposito, perché non riuscivo a togliermi
quell'impressione che fosse lei a provocare tutto, anche le mie deli-
berate crudeltà. Più la seviziavo e più lei urlava di piacere, tuttavia
sentivo che c'era una parte del suo essere che non avrei mai rag-
giunto, neanche se l'avessi massacrata. A dispetto dei suoi ululati,
delle implorazioni che mi rivolgeva, io capivo che era sola. Era sola
e si stava sollazzando con un oggetto che per il momento le appar-
teneva e che dopo avrebbe buttato.
Ancora una volta mi resi conto che l'amplesso era incompleto
e ancora una volta mi sentii insoddisfatto, a dispetto del piacere fisi-
co che ne ricavavo. Era l'ennesima riprova che i sensi non hanno poi
molta importanza se non sono accompagnati da un minimo di emo-
zione. Però la sensualità di Helga era così oceanica che quasi
riusciva a riempire i vuoti emozionali. Quasi.
Infine si irrigidì, ebbe un ultimo sobbalzo quasi riluttante, esa-
lò il gemito classico della morte, cadde all'indietro sfinita. Stavolta
si addormentò di colpo.
Rimasi al suo fianco e mi addormentai anch'io. Qualche ora
dopo mi svegliai e la vidi rientrare dalla cucina. Stava morsicando
una mela, e quella figura nuda e opulenta che si stagliava contro il
vano illuminato della porta mi ricordò Eva, l'eterna Eva. Aveva
pure la mela, manco a farlo apposta. Sedette accanto a me, sul bor-
do del letto, e mi disse:
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— Fermati qui domani. Vado in ufficio solo al mattino, poi
potremo stare insieme.
— Non posso.
— Oh, perché? Hai tanto da fare? — mi chiese un po' imbron-
ciata.
— Debbo partire. Oh, a proposito, dovrei andare a Berlino
Est, ma preferirei farlo di straforo. Non sai come potrei trovare un
sistema per infilarmici di contrabbando?
— Vorresti entrare di là? — mi domandò, dando un altro mor-
so alla mela. — E perché mai?
— Debbo vedere un tale, per una faccenda personalissima. Ma
so che i bravi sovietici di questi tempi sono piuttosto tirchi in fatto
di permessi. E preferirei che non mi tenessero d'occhio.
— Vedo. Infatti sono severissimi. E non è facile ingannarli. —
Masticò un altro pezzo di mela e ci pensò sopra un attimo. —
Aspetta, forse io riesco a farti passare. Mi è venuto in mente...
— Sì? Mi faresti proprio un grande favore se conoscessi qual-
cuno in grado di aiutarmi.
— Ho un cugino che tutti i giorni passa di là con un camion di
viveri. Al posto di controllo lo conoscono perché ha il permesso dei
fornitori e va e viene di continuo. Ormai non guardano più con
scrupolo nemmeno le sue carte. Ha sempre un aiutante con sé.
Potrei dirgli di portarti con lui, al posto suo. Mi deve qualche favo-
re, e se gli telefono...
— Sarebbe una cosa grande, Helga! — esclamai con entusia-
smo sincero.
Lei si alzò per andare al telefono.
— Ora lo chiamo.
— Ma è troppo presto, cara! Non sono ancora le quattro del
mattino, quello ti manderà all'inferno. Aspettiamo un paio d'ore,
almeno.
— Hugo si alza sempre prestissimo perché va ai mercati ali-
mentari — mi spiegò dirigendosi verso la porta. Dovetti sorridere
nell'udire quel nome. Avevo anch'io un buon amico che si chiamava
Hugo. Non era un consanguineo nel senso esatto del termine, ma
avrei anche potuto chiamarlo così, vista la quantità di sangue che
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avevo sparso con il suo ausilio. — E poi debbo dargli il tempo di
avvertire il suo aiutante — continuò Helga dall'altra stanza.
Mi strinsi nelle spalle. In fin dei conti non era affar mio. Lei
conosceva le abitudini del cugino meglio di me, e se non le impor-
tava nulla di svegliarlo, tanto peggio per quel povero cristo. Io non
chiedevo che di passare dall'altra parte, in un modo o nell'altro, e mi
pareva di aver trovato la manna del cielo.
Sentii che formava il numero. Non attese molto. Poi disse:
— Pronto, Hugo? Salve, sono Helga. Ma sì, Helga Ruten. Va
bene, aspetto.
Immaginai che Hugo fosse andato a prendersi una vestaglia se
era balzato giù dal letto svestito. Un momento dopo Helga riprese:
— Sì, Hugo, sto bene. Ho bisogno di un favore da te. C'è un
mio amico, un americano, che vorrebbe infilarsi nel tuo camion per
entrare a Berlino Est. Sì... adesso è qui da me. Abbiamo parlato di
questa faccenda, e allora mi sono ricordata che tu ci vai tutti i giorni
e mi è venuto in mente che potresti portarci lui al posto del tuo aiu-
tante, quando entri con il camion. Che ne dici, ti sembra fattibile?
Ci fu un borbottio all'altro capo della linea. Ad un certo punto
lei lo interruppe.
— Sarebbe semplicissimo, no? Visto che ci andate sempre e
ormai conoscono te e il tuo camion... Il mio amico parla il tedesco
meglio di me e di te, nessuno lo sospetterà. Oh, bravo. D'accordo,
gli dico di salire sul camion che porta il nome di Hugo Schmidt sul-
la fiancata... Molto bene, ho capito. Ci sarà senz'altro. Hai capito
bene? Lo devi solo accompagnare di là. Poi lui se ne andrà per i fat-
ti suoi. D'accordo, allora? Grazie, Hugo. 'Wiedersehen.
Riattaccò e tornò in camera.
— Però mi devi promettere che se rientri in giornata verrai
subito qui.
Non feci fatica a promettere. Le ero molto riconoscente e non
avevo nulla in contrario a rivederla, se tutto andava bene.
— L'appuntamento è a un isolato dal posto di blocco della
Porta di Brandeburgo. Sulla fiancata del camion c'è il suo nome,
Hugo Schmidt. Mettiti in maniche di camicia, o se hai una specie di
tuta da lavoro, indossala, tanto per essere verosimile. Alle dieci in
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punto, va bene? Magari ti puoi accordare con lui anche per il rien-
tro. Lui torna qui nel pomeriggio.
L'abbracciai e le dissi:
— Non sai quanto ti sono grato, tesoro, perché non immagini
che grosso favore mi hai fatto. Al mio rientro ti ricompenserò
amandoti come non sei mai stata amata in vita tua. D'accordo?
Mi lanciò una strana occhiata e mi parve che le si contraessero
le pupille. Si sciolse subito dall'abbraccio e mormorò:
— Vado a dormire in soggiorno. Il divano è trasformabile e
ho sonno.
Mi guardò quasi con rancore.
— E' un peccato — disse infine.
— Cosa?
— Che tu debba andartene.
Mi volse le spalle, uscì e richiuse la porta. Una strana ragazza
davvero, mi dissi. Aveva qualcosa dentro che la infastidiva. Come
se ci fossero due persone in lei: la gatta in calore e un altro essere
remoto e freddo che non ero riuscito a penetrare.
Ma poiché non mi restavano molte ore di sonno, rimandai
ancora una volta le elucubrazioni psicologiche e mi tuffai in un bel
sonno.
Credevo che venisse Helga a svegliarmi, invece sobbalzai nel
peggiore dei modi quando una sveglia si mise a berciare nella stan-
za accanto.
Mi alzai per andare a spegnerla e mi accorsi di essere solo
nell'appartamento. Un bigliettino sul tavolo diceva:
"Sono andata in ufficio – Helga."
Ammazzala, che sforzo, bofonchiai. Non si poteva dire che
nei messaggi si mostrasse affettuosa o sprecasse qualche parola.
Andai a radermi, poi telefonai a Howie Prailler e gli comuni-
cai che ero stato fortunato e che avevo la possibilità di scivolare
oltre il muro. Ne fu contento quanto me, e mi fornì le informazioni
che ancora mi mancavano.
— Il nostro uomo sta al n. 79 di Warschau Strasse e si chiama
Klaus Jungmann. La parola d'ordine è semplice. — Me la riferì, ed
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io ascoltai con attenzione per fissarmela bene in testa, dato che non
intendevo prendere appunti. — Lo comunicherò subito a Hawk —
concluse Howie. — Per lui sarà un buongiorno assai augurale.
Comprai una piccola valigia di tela e vi cacciai dentro la giac-
ca, poi mi affrettai verso il famoso angolo a un isolato dalla Porta di
Brandeburgo. Avevo assunto l'aspetto di un normale lavoratore, se-
guendo i consigli di Helga, limitandomi a stare in maniche di
camicia e a togliermi la cravatta; mi tolsi pure i costosi bottoni da
polso per rimboccarmi le maniche. Non era un gran travestimento,
ma lì per lì non era possibile far di meglio. Forse mi avrebbero
scambiato per l'aiutante di un camionista.
Mentre aspettavo all'angolo che comparisse il mio accompa-
gnatore, mi dissi che dovevo essere grato a Helga per il suo aiuto.
Ma stamane il pensiero di Helga non attecchiva. Al suo posto conti-
nuava ad affacciarsi quello di Lisa Huffmann, con il suo faccino
spiritoso e quei modi controllati; un insieme che rinfrescava come
una brezzolina primaverile.
Non feci nemmeno in tempo a chiedermi perché mi ostinavo a
pensarci; dall'angolo spuntò un camion dalle fiancate scure. Vidi
subito il nome di Hugo Schmidt che spiccava vivace sul fondo cu-
po.
Notai la puntualità tutta teutonica; erano le dieci in punto, non
un minuto di più, non un minuto di meno. Mi avviai verso l'auto-
mezzo e il cugino di Helga si chinò subito ad aprirmi la portiera.
Era un tipo di mezza età dalla faccia rude e solcata, con un berretto
a visiera e una tuta blu da lavoro.
— Vi sono molto grato — gli dissi a guisa di presentazione.
Lui si limitò ad assentire e borbottò:
— Quella Helga, ha sempre qualcosa in ballo. Ma io non le
faccio domande. Ho imparato che è più consigliabile occuparmi dei
fatti miei.
Il traffico si era infittito al posto di controllo e adesso c'era
una coda piuttosto lunga di veicoli. Si trattava più che altro di traffi-
co commerciale, e la Volkspolizei della Germania rossa faceva un
veloce controllo dei documenti ogni volta che una delle macchine
arrivava. Notai il grosso cartello che figurava davanti alla porta.
52
"ACHTUNG! SIE VERLASSEN
JETZT
WEST BERLIN!"
Tradussi mentalmente: "Attenzione, adesso uscite da Berlino
Ovest!" Suonava minaccioso in tutte e due le lingue. Ricordava il
famosissimo "lasciate ogni speranza" dantesco. Fu un po' come
penetrare in un altro mondo, infatti, tanto la diversità era evidente al
primo colpo d'occhio. Alla porta Hugo Schmidt si affacciò al fine-
strino e fece un cenno di saluto ai poliziotti comunisti, che risposero
al saluto e si affrettarono ad aprire. Passammo così. Fu una cosa
tanto semplice e rapida che rimasi sbalordito, poi risi.
— E' il vantaggio di chi passa ogni giorno — mi spiegò
Schmidt senza sorridere. Procedette per un buon tratto, poi si fermò
oltre l'angolo, dove non c'era alcun Vopo in grado di tenerlo d'oc-
chio.
— Dove possiamo vederci, per il rientro? — domandai a Hu-
go.
Dall'occhiata che mi lanciò intuii che non aveva pensato di
dovermi anche riportare indietro. Infine alzò le spalle e bofonchiò:
— Io torno alle quattro del pomeriggio. Se vi fate trovare in
questo punto...
— Ci sarò senz'altro. E ancora grazie infinite.
Osservai il camion che procedeva per la sua strada, poi attra-
versai l'importante arteria denominata Unter den Linden. Il viale
aveva un'aria sciatta di abbandono e di squallore. C'erano ancora
mucchi di macerie ai lati. Fermai un tassì di passaggio con un cenno
e dissi all'autista di condurmi a Warschau Strasse, una delle tante
vie alle quali i comunisti avevano cambiato nome. E poiché Varsa-
via era una delle grandi martiri della guerra, stavolta era sacrosanto
che le avessero dedicato una strada, anche se un turista d'altri tempi
avrebbe faticato a raccapezzarsi fra tante targhe nuove.
Scesi proprio all'imboccatura della via e mi incamminai a pie-
di tra una doppia fila di edifici grigiastri che mi ricordarono una
quantità di quartieri poveri degli Stati Uniti. Giunsi al numero 79 e
vidi la targhetta con il nome di Klaus Jungmann su una porta del
pianterreno. Sotto il nome figurava la professione di fotografo.
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Suonai il campanello e attesi. Mi pervenne un lieve ciabattare
dall'interno. Hawk mi aveva detto che Jungmann era un "dormien-
te", una di quelle spie che restano inutilizzate magari per anni e con
le quali ci si mette in contatto solo per certi scopi determinati.
All'opposto degli operatori internazionali come me, i "dormienti"
sono utilissimi proprio per la loro anonimità assoluta.
La porta si aprì e apparve un tipo alto e magro dalla faccia
malinconica e dai profondi occhi bruni. Indossava una tuta scolorita
e aveva in mano un pennellino da ritocco. Alle sue spalle scorsi un
locale zeppo di lampade, tavolo da disegno, scatole di colori e libri.
— Sì? Desiderate?
— Siete Klaus Jungmann? — gli domandai. — In persona?
Assentì un pochino perplesso e continuò ad osservarmi con
un'ombra di diffidenza. Poi mi domandò:
— In che cosa posso servirvi?
— Vorrei far ritoccare la fotografia di un uomo molto impor-
tante — gli dissi, usando le parole di codice che Howie mi aveva
suggerito. — Si chiama Dreissig. Mai sentito parlare di lui?
— Heinrich Dreissig? — mi domandò il fotografo con caute-
la.
— Dreissig, Dreissig, Dreissig — ribattei. — Tre volte più
strano di qualsiasi altra persona.
Klaus Jungmann sospirò e si strinse nelle spalle. Sedette su di
uno sgabello alto di fronte al tavolo da disegno. Poi mi osservò di
nuovo.
— Chi siete? — mi domandò infine. Glielo dissi, e lui spalan-
cò gli occhi.
— Sono davvero onorato. — Il suo tono era sincero. — Ma se
hanno mandato voi, vuol dire che è accaduto qualcosa a Dennison.
— Sono riusciti a raggiungerlo prima di me, purtroppo — gli
risposi. — Sapete cosa voleva darmi?
Jungmann assentì, e in quell'istante udimmo entrambi una
macchina che arrivava e frenava bruscamente, seguita da una se-
conda e da una terza. Diverse portiere vennero aperte e sbattute, e
diversi piedi pesanti, stile tedesco-invasore-1939-1945, rimbomba-
rono sul marciapiede. Jungmann spalancò gli ocelli e mi lanciò uno
sguardo interrogativo e spaurito. Mi accostai alla finestra e sbirciai
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tra le veneziane abbassate. Due tipi in borghese, uno dei quali però
armato di mitra, stavano arrivando. Chiaro che si dirigevano alla
porta di Jungmann.
— Figli di cani! — sibilai. — Ma come diavolo fanno a muo-
versi così in fretta? Perdio, debbono essere dei lettori del pensiero!
Non essendo dei poliziotti in uniforme, c'era da arguire che si
trattasse degli scagnozzi di Dreissig. Adesso non avevo il tempo di
spiegarmi una cosa così inspiegabile, perciò smisi di imprecare e
domandai a Jungmann:
— C'è un'uscita posteriore, qui?
— Sì, quell'uscio laggiù.
Mi precipitai da quella parte e mi volsi per accertarmi che mi
seguisse. Imboccai un lungo corridoio e lo percorsi sino in fondo.
Sfociava sul retro dell'edificio.
Ma, prima ancora che raggiungessi la porta, questa si spalancò
dall'esterno e apparvero due uomini armati di fucile automatico. Mi
buttai a terra e tirai giù anche Jungmann prima che aprissero il fuo-
co. Wilhelmina mi era già volata in mano e cominciai a sparare.
Uno dei due si piegò su se stesso come un temperino dopo la carez-
za di uno dei miei proiettili, e l'altro arretrò per cercar riparo dietro
l'uscio, per beccarci all'uscita, naturalmente. Mi volsi e tornai indie-
tro, ripercorrendo il corridoio con Jungmann alle spalle.
— Proviamo a salire sul tetto — gli gridai.
Eravamo quasi ai piedi delle scale, proprio di fronte all'allog-
gio del fotografo, quando i due armati di mitra piombarono dalla
parte anteriore sputando confetti all'impazzata. Con un guizzo rien-
trai nell'appartamento, tirandomi dietro Jungmann e chiusi la porta
con il piede. Sentii la serratura che scattava. L'avrebbero forata in
un momento, ma anche un momento può avere un gran valore, in
certe circostanze.
Piroettai sui tacchi quando mi pervenne un nugolo di vetri
infranti e vidi il muso nero di un fucile automatico che spuntava
dalla finestra verso strada. Gridai a Jungmann di gettarsi a terra, ma
lui esitò per un attimo, smarrito. L'arma sputò un arco di proiettili
mortali nella stanza. Vidi Jungmann che rabbrividiva, poi girava su
se stesso con una mano alla gola insanguinata. Cadde a terra, invece
di gettarsi, e ci rimase.
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Sparai un colpo verso la finestra ma senza troppe speranze di
successo. Invece mi pervenne un grugnito di dolore dal marciapiede
e udii il tonfo metallico dell'arma che cadeva. Frattanto una sventa-
gliata colpì la porta posteriore, ma quando piombarono dentro li
stavo aspettando. Tirai due colpi in successione così rapida che
risuonarono quasi simultanei. Si abbatterono insieme a faccia in giù
sul tavolato.
Aspettai un attimo con l'orecchio teso. Silenzio. Sapevo che
ce n'era ancora uno appostato sul retro. Non l'avevo dimenticato
affatto, ma mi rendevo pure conto che la sparatoria avrebbe fatto
accorrere la polizia. E non avevo nessuna voglia di affrontare anche
quella. Era stata una faccenda rapida, furibonda e chiassosa, e ormai
qualcuno aveva telefonato ai Vopo di sicuro.
Mi chinai su Jungmann. Aveva la gola quasi squarciata, ma
era ancora vivo. Appena appena, ma vivo. Presi un asciugamano
che pendeva dalla spalliera di una seggiola e lo usai per tamponargli
la ferita. Si inzuppò subito di sangue. Non era possibile che parlas-
se, poveraccio, ma aveva gli occhi aperti e forse avrebbe avuto la
forza di farmi qualche cenno. Avvicinai la faccia alla sua.
— Mi sentite, Klaus?
Annuì debolmente.
— Voglio sapere chi finanzia Dreissig. Si tratta dei sovietici?
Una scossa del capo impercettibile che voleva dire no. Non
c'erano dubbi.
Passai alla seconda domanda.
— Si tratta dei cinesi? Sono loro che lo appoggiano e gli dan-
no quattrini?
Altra leggerissima scossa di diniego. Frattanto l'asciugamano
si era inzuppato del tutto. Il tempo e la vita di Klaus Jungmann se
ne stavano andando insieme. Avevo una fretta angosciosa, ma anco-
ra non avevo risolto nulla.
— Qualcuno in Germania? — domandai con ansia frenetica.
— Ricchi nazionalisti nostalgici? Oppure una cricca di militari?
Ancora una volta i suoi occhi mi dissero di no. Arretrai quan-
do lo vidi sollevare a fatica un braccio tremulo. Con un dito mi
indicò un angolo della stanza dove un secchio rosso da incendio,
pieno di sabbia, spiccava in modo notevole. Seguii con lo sguardo
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quel dito puntato. Non c'erano dubbi, mi indicava proprio il secchio
di sabbia.
Corrugai la fronte. Guardai il recipiente che non mi diceva
proprio nulla. Poi domandai:
— Il secchio di sabbia?
L'uomo assentì con un battito leggerissimo di palpebre, e subi-
to dopo gli occhi gli si annebbiarono e il capo gli ricadde all'in-
dietro. Ormai il povero Klaus Jungmann non avrebbe più risposto
ad alcuna domanda. Udii l'ululato delle sirene che si avvicinavano.
Bisognava filare al più presto.
Uscii dalla porta posteriore, scavalcando i due cadaveri. Erano
degli omaccioni biondi e squadrati, di tipo germanico. Purtroppo
non avevo tempo di perquisirli, quei bastardi maledetti che pareva-
no pieni di occhi e orecchi da tutte le parti. Se pensavo alla rapidità
con cui mi avevano raggiunto, fremevo ancora di rabbia.
Mi inerpicai di volata sino alla sommità dell'edificio e sollevai
la botola che portava al tetto. Frattanto le sirene avevano smesso di
ululare. La Polizei era arrivata. Chissà se sarei riuscito a non farmi
beccare? Di cadaveri ne avrebbero trovati abbastanza da trattenersi
per un po' a studiare la situazione e domandarsi cos'era accaduto.
Mi affacciai alla grondaia posteriore e vidi il nazi che filava a tutta
birra. S'era rimesso in tasca la "sputapiselli" e fingeva di essere un
passante qualsiasi. Lo so, fu un gesto pazzo, ma lo feci perché ne
sentivo il dovere, costasse quel che costasse. Quei bastardi non mi
avevano lasciato un momento di respiro, a partire da quel brutale
assassinio plurimo del battello esploso insieme a Ted. Adesso non
potevo permettere a quel superstite di cavarsela.
Bastò un colpo. Lo vidi incespicare e cadere faccia a terra. Un
breve sussulto, poi rimase immobile.
Sapevo che i poliziotti sarebbero entrati subito in agitazione
udendo quello sparo. Io però ero già balzato sul tetto della casa ac-
canto. Poi passai a un altro. Misi una dozzina di case tra me e quella
del massacro, prima di avventurarmi sulla terraferma. Ad un certo
punto scivolai in una botola, raggiunsi un solaio, una rampa di sca-
le, un marciapiede. Quella era una tecnica nella quale ero esper-
tissimo. L'avevo esperimentata un migliaio di volte in America e
all'estero. Mi servì pure a Berlino Est.
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Mi incamminai con l'aria più tranquilla del mondo, poi mi
girai a guardare prima di svoltare a sinistra. Si era raggruppata una
bella folla, laggiù. Raggiunsi un giardinetto pubblico poco distante
e sedetti su una panchina. Avevo del tempo per una volta tanto, e
l'avrei usato per cercar di decifrare ciò che Jungmann aveva cercato
di farmi intendere. Che diavolo significava quel secchio di sabbia?
La panchina era una piccola oasi di pace e di tranquillità. Mi
rilassai usando il sistema Yoga di acuire la mente attraverso il ripo-
so totale del corpo. Quel dannatissimo secchio rosso rappresentava
un mistero ben difficile da sciogliere. Jungmann aveva negato che
ci fossero di mezzo i russi, i cinesi e i nostalgici casalinghi. Eppure
Dreissig non poteva tirar fuori i quattrini dalla sabbia, a meno che
non si trattasse di sabbie aurifere. No, non aveva senso. E allora?
Qualcuno che commerciava in sabbia? Neanche questo aveva molto
senso, ma era pur sempre una possibilità. Che però avrebbe fatto
parte della mia teoria sugli industriali tedeschi. Invece Jungmann mi
aveva costretto a scartarla. Qualcosa mi disse che stavo camminan-
do per un sentiero sbagliato. Ricominciai un'altra volta.
Un secchio di ferro smaltato di rosso e pieno di sabbia. A che
mi dovevo aggrappare, come simbolo? Al secchio o alla sabbia?
Considerai a lungo il secchio da tutti i lati e non conclusi un acci-
dente. Allora bisognava tener duro con il suo contenuto, e cioè la
sabbia.
Maledizione, cosa aveva cercato di dirmi quel poveruomo?
Quei bastardi lo avevano proprio colpito alla gola, impedendogli di
parlare. E adesso non ci capivo nulla.
Ricominciai ancora. Chiusi gli occhi e mi abbandonai alle
possibili associazioni di idee, come si fa con i tests quando ti do-
mandano: "Cosa ti ricorda questo?". Ma che diavolo potevano avere
in comune Dreissig e la sabbia? Lo finanziava qualcuno che in
qualche modo si collegava con la sabbia. Qualcuno, o qualcosa, o
qualche località. Un lumino mi si accese nel cervello all'improvviso,
quando pensai a una località. Non si trattava di sabbia, ma di un po-
sto dove c'era la sabbia. Una spiaggia? No, maledizione, e quale
spiaggia?
Il lumino si mise a bruciare meglio e divenne una luce viva.
La sabbia del deserto? I paesi arabi!
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Ma certo, mi dissi balzando su. I paesi arabi ricchi di petrolio.
Questo aveva cercato di dirmi Jungmann! Sabbia e arabi, sicuro!
D'un tratto mi si schiarì la mente e tutto mi apparve logico.
Non tutto il mondo arabo era d'accordo con la politica di Nasser,
c'erano tanti sceicchi del petrolio che auspicavano un regime ben
diverso. Forse Dreissig aveva esposto il suo progetto di far risorgere
il nazismo a qualche signorotto arabo, e s'era comprato la sua colla-
borazione. E certo il tedesco aveva promesso qualcosa in cambio
del danaro che riceveva. Doveva trattarsi di qualcosa di grosso per il
Medio Oriente. E quel qualcosa non doveva essere la pace in quella
zona sempre sconvolta dalle ostilità. Proprio no. Ebbi l'impressione
sgradevole di una manovra assai poco pulita. Se Dreissig non veni-
va bloccato subito, nessuno lo avrebbe fermato più...
C'è sempre un'ora X in cui le cose precipitano troppo in fretta
e il solo sistema per arrestarle è una collisione.
Adesso non avevo bisogno delle istruzioni di Hawk, perché
sapevo già cosa mi avrebbe detto: infilarmi dentro in qualche modo
e scoprire i loro piani.
Bene, il primo passo consisteva nel rientrare a Berlino Ovest.
Il secondo ancora non l'avevo escogitato. Pensai un po' al progetto
di incontrarmi con Dreissig. Avrei potuto farmi passare per un am-
miratore, un ricco americano che condivideva le sue idee politiche.
Forse mi sarei conquistato la sua fiducia e gli avrei estorto delle
confidenze. Ne avrei discusso prima con Hawk, ma l'idea non mi
sembrava da buttar via.
Mi alzai e mi avviai a piedi verso il luogo dell'appuntamento
con Hugo Schmidt. Avevo imparato a mie spese che quello di
Dreissig non era più il giochetto innocuo di un fanatico dilettante
che non impressionava nessuno. La maniera con cui mi si erano
messi alle calcagna e mi avevano trovato ogni volta che avevo fatto
un passo dimostrava che quel tipo non andava sottovalutato. I suoi
bravi ragazzi erano dei tipi in gamba, i più astuti in cui mi fosse ca-
pitato di imbattermi in tanti anni. Oppure erano fortunati in modo
sfacciatissimo. O l'uno e l'altro, il che spaventava ancor di più. Vi-
sto il pelo sullo stomaco che avevano.
Comprai un giornale, poi mi appoggiai a un lampione e co-
minciai a leggere per passare il tempo in attesa del camion.
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Il traffico pomeridiano verso Berlino Ovest si infittì. Ad un
certo punto notai che per il ritorno Hugo Schmidt non era così teu-
tonicamente preciso come per l'andata. Arrivarono le quattro e
passarono, ma non lo vidi. Alle quattro e mezzo ripiegai il giornale
e cominciai a passeggiare avanti e indietro, sempre più ansioso. Non
sarebbe" stato piacevole rimaner bloccato di qua dal muro! Alle
cinque gettai via il giornale e il mio andirivieni divenne un po' fre-
netico. Guardavo con la massima attenzione tutti i veicoli che mi
passavano davanti. Alle sei mi parve che una mano gelida mi arti-
gliasse lo stomaco. Hugo non si era fatto vedere. E non si era fatto
vedere perché non aveva alcun motivo di venire all'appuntamento.
L'uomo non si aspettava che io arrivassi, infatti. Né alle quattro, né
dopo né mai. Perché io avrei dovuto esser morto in compagnia di
Klaus Jungmann.
Un pensiero che agghiacciava, ma più che giustificabile.
All'improvviso una grossa quantità di tessere del mosaico che prima
se ne stavano affastellate senz'ordine andarono a posto e spiegarono
un mucchio di cose che prima erano apparse senza senso. I gianniz-
zeri di Dreissig, per esempio.
Non erano né onnipotenti né diabolici. Qualcuno mi aveva
additato sin dall'inizio. E il ditino apparteneva alla bionda Helga
Ruten, la bella Helga, l'appassionata Helga. Solo lei sapeva che sa-
rei entrato a Berlino Est, da che parte, a che ora e in che modo.
Aveva preparato una bella trappola per me; solo che in trappola c'e-
ra caduto quel povero diavolo di Jungmann al posto mio. Anche il
giorno prima, quando mi avevano pedinato mentre mi recavo agli
uffici dell'AXE, Helga era la sola a sapere che ero arrivato in città.
Ovvio che aveva fatto una telefonatina dal castello, così loro si era-
no appostati da qualche parte ad attendermi. Ecco perché non ero
riuscito a scuotermeli di dosso! Maledetti. E maledetta Helga la ca-
gna. Oggi avevano atteso che mi ponessi in contatto con Jung-
mann, poi erano entrati in azione per prendere due piccioni con una
fava. Questo piccioncino però era più vivo e vispo che mai. Era pu-
re in collera. Rabbioso come un cane, per l'esattezza.
Adesso tutto quanto appariva così ovvio che mi sarei preso
volentieri a calci. Ripensai allo sbalordimento che aveva manifesta-
to Helga quando mi aveva veduto sulla sua soglia. Sfido, le avevano
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detto che ero morto carbonizzato sui binari dell'Espresso Berlino-
Amburgo!
E la cosiddetta telefonata al cugino Hugo Schmidt... In realtà
aveva convocato gli uomini di Dreissig per avvertirli che l'america-
no "morto" era lì in casa sua e intendeva recarsi a Berlino Est.
Aveva ordito la sua trama proprio in faccia a me, e io c'ero cascato.
Certo ci voleva una faccia tosta incredibile, ma la bionda l'avrebbe
pagata, oh se l'avrebbe pagata! Altro che amplessi...
Una cosa però continuava a disturbare la mia ricostruzione di
quanto era accaduto: come poteva entrarci Helga nella faccenda del
battello esploso, se per poco non ne era rimasta vittima pure lei?
Non calzava. Se faceva parte della banda, come mai si trovava su
quel battello? Quando l'avevo raccolta in acqua non fingeva, porca
miseria! Era sotto choc quando l'avevo tratta in salvo dopo quel bal-
zo nel Reno. Il tremito, le lacrime, la paura... che diamine, non è
facile simulare certe cose!
Mah, forse esisteva una spiegazione anche per quel particola-
re, e gliel'avrei estorta. Certo che il fattaccio del battello rappre-
sentava una stonatura. Ma adesso urgeva ripescare Helga e farla
cantare. Forse sarebbe stata proprio lei a condurmi sino a Dreissig,
se era ciò che sospettavo.
E come avrei fatto a rientrare a Berlino Ovest?
Mi incamminai e giunsi nei pressi del muro alto di cemento
grigio. Come se non fosse già abbastanza invalicabile, i russi lo
avevano pure decorato con dei bei festoni di elettrificati cavalli di
frisia. Sarebbe stato uno scherzo valicarlo... Si estendeva ininterrot-
to nelle due direzioni e formava proprio, come solevano dire i
berlinesi, una cortina di cemento.
Dissi a me stesso: "Mi pare che tu abbia un grosso problema
da affrontare, vecchio mio."
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Berlino Est era al buio, ormai, e i fari delle macchine si accodavano
in prossimità della piazza. Questa era invece inondata di luce, con-
trariamente al resto della città.
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Girellai lungo il muro famoso e pur sapendo che non sarei riu-
scito a scalarlo mi adagiai per un po' nell'illusione di poterlo fare.
Sbirciando verso la sommità notai un paio di punti almeno dove
avrei avuto modo di sottrarmi all'insidia del filo spinato e della cor-
rente. Ma l'idea andò subito in fumo quando l'illuminazione della
piazza esplose accecante. Il muro divenne così visibile che chiunque
avesse tentato di scalarlo sarebbe stato cospicuo come un calabrone
su un gelato alla panna.
Camminando mi spinsi sino al punto in cui la Sprea, infi-
schiandosene dei lasciapassare, scivolava da Berlino Est a Berlino
Ovest. Una possibilità anche quella, ma deboluccia assai. Una squa-
dra di Vopo infatti pattugliava quella zona con l'aiuto di
efficientissimi cani pastori tedeschi. E anche le sponde del fiume
erano illuminatissime nei dintorni del muro. Uno che si fosse tuffato
e avesse tentato di attraversare la Sprea sarebbe stato visto e blocca-
to subito.
Tornai indietro e mi appostai di nuovo in quell'angolo della
piazza da cui ero partito. Osservai la coda di veicoli e ripensai a tut-
to ciò che sapevo sugli sforzi riuniti dei russi e dei poliziotti
tedesco-orientali per metter freno alla fiumana di fuggiaschi che
tentavano di rinunciare alle gioie della democrazia popolare. Con-
statai che avevano fatto proprio un ottimo lavoro quegli sbirri.
Tornare da Helga diventava sempre più problematico, e questa non
me l'ero aspettata.
Da quel che vidi capii che esisteva un'unica soluzione: per
uscire non c'era che una via: la porta per la quale si era entrati, e
cioè il posto di controllo con tutti i suoi bravi sorveglianti.
Stava lì di fronte a me, e con un po' di fortuna sarei forse riu-
scito a scivolar fuori. Ma prima dovevo procurarmi un automezzo
qualsiasi.
Non tardai ad accorgermi che le strade di Berlino Est si svuo-
tano alla svelta dopo il tramonto. La vita notturna è confinata nella
zona della Stalinallee, più ad oriente, e neanche là si vede una gran-
de animazione. C'era poca gente in giro, e poche macchine, salvo
quelle dirette al posto di controllo.
Infine ne scorsi una, una piccola Mini-Cooper parcheggiata
davanti a una trattoria. Era stata trasformata nel carro attrezzi d'un
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idraulico e aveva il tetto zeppo di borse, arnesi vari, torce ad aceti-
lene e pezzi di tubo. Sulla portiera si leggeva il nome del
proprietario, Klempner, e costui, come constatai dopo una sbirciata
all'interno del locale, stava finendo di bere il caffè. La stradetta era
semideserta e poco illuminata. Mi tenni nascosto nell'ombra e aspet-
tai che uscisse.
Gli balzai addosso senza far rumore non appena si accinse ad
infilare la chiave nella portiera. Dovevo far presto e soprattutto do-
vevo evitare il chiasso.
Tentò di girare su se stesso quando gli misi il braccio attorno
alla gola e gliela strinsi in una morsa. Strinsi quel tanto che bastava
a fargli perdere i sensi, ma non lo soffocai. Non appena infatti sentii
che mi si afflosciava di sotto lo lasciai andare. Quella stretta era
pericolosa e sarebbe stata fatale per il poveraccio se non avessi con-
trollato da esperto la pressione. Così invece era svenuto, ma tra un
quarto d'ora al massimo si sarebbe ripreso. Lo trascinai in un andro-
ne scuro e gli diedi uno schiaffetto amichevole.
— Mi dispiace, amico — sussurrai. — E' tutto per la buona
causa, vedi? Tu magari non lo sai ma stai entrando a far parte della
schiera degli eroi oscuri e misconosciuti.
La Mini-Cooper non si poteva definire il veicolo ideale per
un'impresa come quella che intendevo compiere. Non mi ci vedevo
a rompere uno sbarramento con quel trabiccolo. D'altra parte biso-
gnava accontentarsi. Girellai un po' per familiarizzarmi con la
macchina e mi parve di andare a spasso in triciclo. Infine tornai in
piazza e aspettai che si aprisse un varco nella coda per fare il mio
exploit. Mi occorreva un minimo di vantaggio perché non contavo
troppo sulla velocità di quella caffettiera.
Rallentai quando due grossi autocarri varcarono la porta per
entrare a Berlino Ovest, e la coda alle mie spalle dovette fare altret-
tanto. Così davanti a me ci fu uno spazio vuoto, ed io mi lanciai.
Premetti l'acceleratore a tavoletta e caricai come un toro il cancello
di legno a oriente della porta di Brandeburgo.
Purtroppo c'erano alcuni piccoli particolari che non avevo pre-
so in considerazione. Il primo non lo conoscevo e consisteva nel
fatto che, dopo tanti tentativi di fuga in passato, si era deciso di met-
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tere dei sorveglianti supplementari in piazza che tenessero d'occhio
le macchine che aumentavano di colpo la velocità.
Non appena tali sorveglianti davano l'allarme, schizzava fuori
il secondo particolare diabolico. E lo imparai a mie spese. In un fra-
stuono di sirene e di clacson tentai di procedere, ma di colpo vidi
una fila di chiodacci che sbucavano dal selciato. Rammentai solo al-
lora che alcuni tedeschi intraprendenti avevano cercato di passare
servendosi di carri armati per rompere lo sbarramento, e che in se-
guito i poliziotti avevano adottato il sistema dei chiodi per bloccare
in tempo i tentativi di fuga. Quei chiodi avrebbero sfasciato la Mini
di sicuro, se mi ci fossi infilzato con i pneumatici. Sterzai appena in
tempo e presi una curva pazzesca su due ruote, non appena mi resi
conto del pericolo. Il macinino sfiorò con grande stridore le sbarre
di lato e minacciò di rovesciarsi su un fianco. Lo raddrizzai per mi-
racolo e mi diressi a tutta birra contro quattro Vopo che si erano
inginocchiati per prendere la mira e mi stavano puntando addosso i
fucili. Come mi videro arrivare schizzarono via per mettersi in sal-
vo.
Adesso filavo di fianco al muro, ma purtroppo dalla parte sba-
gliata, e sentivo i proiettili che foravano i paraurti posteriori.
Cercavano di bucare le gomme. Sterzai di nuovo e feci del mio me-
glio per infilarmi in una laterale, ma per far ciò dovetti attraversare
lo spiazzo. Frattanto una camionetta mi si era piazzata davanti con
l'intento di bloccarmi.
Ne balzarono giù quattro Vopo – forse gli stessi che avevo di-
sperso poco prima – che si nascosero dietro, con i fucili puntati, e
aspettarono. Secondo loro avevo due alternative: o sbatter contro il
loro veicolo pesante, o avere il buon senso di fermarmi.
Non feci né l'una né l'altra cosa. C'era soltanto uno spiraglio
miserabile tra la parte posteriore della camionetta e il muro di una
casa. Mi ci infilai con la Mini, salendo sul marciapiede e scrostando
la vernice da ambo i lati, e schizzai via come un fulmine. Altra ster-
zata brusca, e infine trovai riparo in una stradina laterale, mentre
una macchina di pattuglia iniziava la caccia a sirene spiegate.
Ormai sapevo che con quella Mini-Cooper non sarei riuscito a
combinare gran che. Continuai per un po' a filare a zig-zag tra una
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viuzza e l'altra per far perdere le mie tracce, poi mi fermai, balzai
giù e cominciai a camminare.
La macchina della polizia arrivando come una freccia andò a
cozzare contro la Mini, come avevo sperato. Udii il cozzo e il boato
quando entrambe le auto andarono in fiamme. Adesso avrebbero
avuto il loro da fare e mi avrebbero lasciato un po' di respiro.
Raggiunsi l'edificio più vicino, poi tornai indietro e mi mesco-
lai alla folla di curiosi che si era raccolta ad osservare l'incidente e a
commentarlo. Arrivarono pure le jeeps militari. Mi allontanai tran-
quillo, proprio come un passante che ha soddisfatto la propria
curiosità.
Be', avevo tentato e mi era andata male. Mi trovavo ancora a
Berlino Est, e quel dannatissimo muro appariva più che mai invali-
cabile.
Ora capivo perché gli abitanti di quel settore di Berlino ave-
vano delle facce così poco allegre, rassegnate e prive di animazione.
Non appena la folla si disperse tornai verso la piazza e mi fic-
cai in un portone per tener d'occhio la fila di automezzi che si
dirigeva alla porta di Brandeburgo. Continuavo a spremermi il cer-
vello per trovare un'altra via d'uscita, ma senza successo. Non osavo
certo ripetere il tentativo di prima. Stavano all'erta, ormai, e aveva-
no chiamato pure dei rinforzi.
Rimasi nascosto in quel portone per qualche ora, a tormen-
tarmi le meningi e attendere l'occasione. Pensai a tutte le fughe
celebri, storiche e leggendarie. Stavo rievocando quella di Ulisse
che si sottraeva alla vendetta di Polifemo aggrappandosi al ventre di
una pecora, quando notai che il traffico con il trascorrere delle ore si
riduceva agli automezzi pesanti da trasporto; ormai non si vedevano
più molte macchine.
Era quasi mezzanotte e mi sentivo infelicissimo. Ed ecco che
vidi spuntare quattro enormi trattori con rimorchio diretti al posto di
controllo. Erano talmente ingombranti che l'ultimo arrivava quasi al
portone in cui mi trovavo io. Osservai i Vopo che controllavano i
documenti e le macchine come sempre, e che esaminavano l'interno
dei rimorchi. La solita storia, insomma. E il solito zelo maledetto da
parte degli sbirri. Mentre li guardavo un'idea mi si accese nel cer-
vello e prese subito fuoco. Sarà stato perché pensavo ad Ulisse,
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forse, non so. Ricordo che l'occhio mi cadde sulle due ruote piccole
ripiegate al di sotto della parte anteriore del rimorchio. Erano sorret-
te da un telaio retrattile che si trovava sotto l'asse, e venivano
liberate solo quando il rimorchio era staccato dal trattore.
I Vopo, terminato il controllo, tornarono ai loro posti e sentii
che il primo convoglio si metteva in moto. Ad uno ad uno anche gli
altri motori cominciarono a rombare, e quando il primo rimorchio
oltrepassò il cancello scivolai gattoni verso l'ultimo. Mi tuffai di
sotto e mi aggrappai al telaio, infilando le gambe tra l'asse e il piano
d'appoggio del trattore. Rimasi piatto piatto in quella posizione e
trattenni il respiro. Anche l'ultimo convoglio si avviò ed io mi rac-
comandai alla buonanima di Ulisse, figlio di Laerte, da Itaca.
Dal mio scomodo nascondiglio osservai i pantaloni delle uni-
formi che scomparivano man mano che acquistavamo velocità, poi
le strisce bianche e nere del cancello.
Infine tirai un sospirane di sollievo. Ero a Berlino Ovest!
Mantenni la mia precaria posizione sino a quando il convoglio si ar-
restò davanti a un semaforo rosso. Approfittai della breve sosta per
balzar giù velocemente, e feci appena in tempo ad evitare di venir
schiacciato da quelle ruote tremende. Sentivo un po' di crampi alle
gambe ma non ci feci caso e mi incamminai di buon passo. Ero da
questa parte, in barba a Helga e alla polizia. Inoltre ero vispo come
un fringuello e rabbioso come un cane.
Contrariamente all'altro settore, Berlino Ovest era ancora il-
luminata e piena di vita anche se era notte avanzata. Mi affrettai a
prendere un tassì e lungo il percorso controllai Wilhelmina per assi-
curarmi che avesse il caricatore pieno, poi me la misi nel fodero che
portavo sotto ascella. Avevo pure la chiave che Helga era stata così
gentile da darmi. Stavolta non sarei stato così compitino da suonare
il campanello, né così scemo.
Una lama di luce che filtrava di sotto la porta mi confermò
che la bionda era ancora alzata. Aprii svelto. Lei si trovava in came-
ra con l'uscio aperto e si volse quando mi sentì. Forse non aspettava
me. Anzi, non mi aspettava per niente visto che anche stavolta mi
credeva morto ammazzato. Si volse senza nervosismo, e mi doman-
dai quante chiavi di casa aveva distribuito ai suoi maschietti. Ma
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non ero curioso di sapere chi fosse il privilegiato di quella notte.
Non me ne fregava proprio niente.
Non ebbi bisogno di dire una parola. Spalancò gli occhi e mi
fissò incredula e terrorizzata. Indossava una gonna scura e una ca-
micetta verdolina senza maniche. Superato il primo momento di
stupore e notata l'espressione dei miei occhi, tentò di fare un tuffo
verso la cassettiera che stava contro la parete. Riuscì ad aprire il
primo cassetto e stava brancicandovi dentro in cerca della pistola
quando glielo richiusi sul polso, facendola strillare di dolore. Poi le
afferrai l'avambraccio e la scostai con uno strattone. L'arma ricadde
all'interno ed io ve la lasciai. Scaraventai Helga sul letto, e cadendo
lei rovesciò una valigetta da notte che stava preparando sul tappeti-
no. La vidi rimbalzare e l'afferrai per i capelli, tirando senza
misericordia. Lei gettò un grido e cercò di liberarsi divincolandosi
come un'ossessa e tentando di difendersi con i pugni. Adesso si era
messa ginocchioni. Cercò di commuovermi con la nota patetica.
— Ti prego, non farmi male — mi supplicò. — Sono felice
davvero che tu sia vivo!
— Oh certo, come no! Vedo che sei addirittura estatica di gio-
ia. L'ho capito quando ti ho visto balzare verso la pistola. E' stato
proprio un gesto toccante il tuo, niente da dire!
— Avevo paura che tu mi volessi uccidere — balbettò. — Eri
così... così...
La guardai dall'alto in basso sogghignando.
— E scommetto che non sei riuscita nemmeno a spiegarti per-
ché ero in collera, vero? Sei una povera innocente, lo so. Tuttavia
dovrai rispondere a qualche domandina, altrimenti passi un guaio
grosso.
Mollai una pedata al valigino.
— Stavi per andartene, vero? Appuntamento con i tuoi bravi
amichetti, zietti e cuginetti, immagino. Fiera del successo ottenuto,
eh? Magari volevi un bacio in fronte da Dreissig, e un "brava".
— Stavo andando in campagna — balbettò aggrappandomisi
ai baveri. — Non sono... non faccio... non sono dei loro, io, davve-
ro!
Fece gli occhioni tondi e supplichevoli di nuovo.
— Raccontala a un altro.
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— No, davvero, li ho aiutati stavolta perché mi servivano i
quattrini, ma...
— Lascia perdere. Non me la dai ad intendere. So che Dreis-
sig viene finanziato da quattrini arabi. Adesso tu mi illuminerai sui
particolari mancanti. Chi lo sovvenziona e lo appoggia, di preciso?
— Non ne so nulla — ripeté lei. — Non ne so nulla, devi cre-
dermi!
— Sicuro, debbo crederti, e poi debbo farmi esaminare il cer-
vello.
— Ma non capisci... — cominciò Helga. La interruppi con un
gesto brusco della mano.
— Hai ragione, c'è ancora un sacco di roba che non capisco,
ma adesso sarai tu a chiarire, e alla svelta. Per esempio non capisco
come possa una femmina avere il coraggio di fare all'amore con un
uomo, e poi preparargli una trappola mortale appena scesa dal letto.
Non capisco nemmeno come facevi a trovarti su quel battello che è
esploso.
— Posso spiegarti tutto.
— D'accordo, ma questo può aspettare. Prima devi dirmi ciò
che sai su Dreissig.
Mi accarezzò una coscia.
— Ti ho già detto che non so nulla sul suo conto e te lo ripeto.
Le mollai un ceffone con una forza da staccarle la testa dal
collo.
— Ricominciamo — latrai. — Dove prende i quattrini Dreis-
sig e dove li deposita?
Capì che non sarebbe riuscita a menare il can per l'aia. I miei
occhi le dissero che non stavo scherzando. Raccolse il messaggio.
Non mi sarei lasciato intenerire dalla sua femminilità né dalle sue
carezze alla Giuda Iscariota. A mia volta però notai una contrazione
nelle sue pupille, un rapido bagliore che mi mise in guardia. Osser-
vai la sua mano, che ancora cercava di accarezzarmi la coscia,
chiudersi di colpo a pugno e guizzare verso un punto più delicato.
Capii subito cosa intendeva fare, e prima che il colpo all'inguine
raggiungesse il bersaglio, le allungai un manrovescio che la fece vo-
lare giù dal letto. Le batterono i denti come nacchere. Ancora una
volta l'afferrai per i capelli e la tirai su. Poi la ributtai sulla coperta a
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faccia in giù, mi sfilai la cintola e cominciai a prenderla a frustate.
Lei urlò e cercò di sottrarsi ai colpi buttandosi giù dall'altra parte
del letto. La ripresi ancora e ancora le riempii la faccia di schiaffoni.
Non era più bella, adesso, con quelle guance rosse e gonfie, quei
lineamenti contorti dalla rabbia e dall'odio. Continuai a colpirla
senza misericordia, accecato dal rancore, e lei continuò a girare per
la stanza minuscola in cerca di respiro, mugolando e piangendo e
supplicandomi:
— No, mio Dio, no! Basta, basta, ti prego!
Incespicò, cadde, e di nuovo le afferrai i capelli e la sollevai
con uno strattone che per poco non la scotennò. La ributtai sul letto
e ricominciai con le cinghiate. Non mi stavo divertendo più di quan-
to non si divertisse lei. Non mi era mai piaciuto malmenare le
donne. Ma ad incoraggiarmi c'era il ricordo di tutta quella povera
gente sul battello, morta senza colpa.
Prima che svenisse per il dolore l'afferrai per il collo e comin-
ciai a stringere, fissandola spietato.
— E allora, Helga, questo Dreissig? Chi lo finanzia? Chi ap-
poggia il suo partito?
— Ben Mussaf — balbettò con voce strangolata, gli occhi
fuori dall'orbita.
Allentai la stretta e la lasciai ricadere sulla coperta.
Ben Mussaf, lo Sceicco Abdul Ben Mussaf. Uno dei ricconi
del deserto. Aveva sempre cercato di opporsi alla politica di Nasser
e alla sua influenza sugli affari arabi. Era miliardario, possedeva
una quantità di pozzi petroliferi e manteneva dei buoni contatti con
altri sceicchi in grado di alimentare la sua sete di potere. E di agevo-
larne la scalata.
— Come fa a mandargli i soldi, e dove glieli manda? — chiesi
a Helga. Lei esitò un attimo, ed io mi avvicinai minaccioso. Sussul-
tò e cercò di ritrarsi, terrorizzata.
— Oro.
Mi scappò un sibilo. D'altra parte era naturale. L'oro aveva
sempre una magnifica stabilità valutaria in qualsiasi parte del mon-
do. Dreissig poteva smerciarlo a suo piacere dappertutto e in
qualunque momento. In cambio di marchi, dollari, franchi o altra
valuta che gli servisse lì per lì. Si risparmiava pure la necessità di
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fare dei grossi depositi imbarazzanti in qualche banca. L'oro era va-
lido dappertutto, sempre, su ogni mercato.
C'era un problema, però. Una grossa quantità di quel prezioso
metallo non si poteva accumulare nel solito salvadanaio di terracot-
ta. Ingombrava.
— E dove lo tiene? — domandai a Helga.
Lei cercò di rizzarsi su un gomito, ma tremava di pena e di
rabbia. Scosse il capo come per snebbiarsi la vista, poi balbettò:
— Dammi una sigaretta, ti prego... — vide l'espressione geli-
da del mio sguardo e continuò: — Una sola, dopo ti dico tutto. Ho
bisogno di una sigaretta. Non la si nega nemmeno ai condannati a
morte, dopo tutto...
Assentii con un cenno del capo. Sapeva che non scherzavo e
che non sarebbe riuscita a farmi fesso. Una sigaretta forse le
avrebbe schiarito il cervello e l'avrebbe convinta a collaborare se
voleva salvarsi. Sul tavolino da notte c'era una lampada, un pesante
portacenere di cristallo e un pacchetto di Astor. Helga allungò una
mano per sfilarne una e per un attimo mi volse le spalle mentre af-
ferrava il portacenere. Indovinai le sue intenzioni solo perché le vidi
irrigidire il muscolo del braccio, e reagii fulmineo. Altrimenti mi
sarei fatto spaccare la testa da quel missile che doveva pesare alme-
no un chilo, quando lei lo agguantò e me lo tirò addosso. Mi mossi
con un guizzo, e il portacenere mi sfiorò soltanto una tempia, senza
far troppo danno. Mi slanciai per darle una lezione, ma lei era già
balzata giù dal letto e si era precipitata ad aprire il cassetto per
estrarre la pistola, approfittando di quell'attimo in cui ero rimasto
sconcertato a massaggiarmi la tempia e a scuotere il capo.
Quando mi volsi era davanti a me con l'arma puntata.
— Porco! — sibilò. — Adesso ti garantisco che te ne pentirai
amaramente. Ah, vuoi delle spiegazioni? Benissimo, te le darò, per-
ché saranno le ultime che sentirai. Se gli altri sono così inetti da non
riuscire a farti fuori, non sarò certo io a permetterti di cavartela. Ti
interessa sapere come facevo a trovarmi su quel battello? Ci sono
andata per metterci la bomba, grosso imbecille. Solo che quella
verdammte è esplosa trenta secondi prima del previsto. Sarei rima-
sta uccisa anch'io insieme agli altri, se non mi fossi buttata subito
dal parapetto per nuotare alla svelta verso la riva.
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Fissai quegli occhi di acciaio azzurrino. Erano di una freddez-
za spietata. E a dispetto delle botte che si era presa aveva una mano
saldissima nell'impugnare la pistola. Rimpiansi di non averle spez-
zato le dita. Ripensai per un attimo alla bestia primitiva che faceva
all'amore in modo così selvaggio ma senza partecipare con lo spirito
all'avventura. Era davvero una donna dalla doppia personalità. E
ciascuna di queste personalità era ancora più belluina dell'altra.
— Sei soddisfatto, adesso che ti ho svelato il mistero del bat-
tello sul Reno?
Assentii e continuai a fissarla.
— E adesso vuoi sapere dove nascondono l'oro, eh? — conti-
nuò. — Ben Mussaf domani sera arriverà per conferire con
Dreissig. Con lui arriverà pure una grossa partita d'oro. E' proprio
un peccato che tu non possa assistere alle operazioni di scarico della
merce.
Gridava, e io continuavo a fissarla. Non avevo nulla da perde-
re, ormai, e cercavo di guadagnare soltanto un po' di tempo, augu-
randomi che il tempo giocasse in mio favore. Non dovevo dimenti-
care che esisteva pure l'altra Helga, quella affamata di sesso. Se
fossi riuscito a incanalare i suoi pensieri su quel binario e ce li aves-
si tenuti anche solo per poco, forse mi sarei salvato. Frattanto avevo
visto che il cordone della lampada da notte finiva in una presa di
corrente non lontana dal punto in cui mi trovavo.
— C'è un'altra cosa che vorrei sapere — dissi, fingendo di ap-
poggiarmi sull'altra gamba per spostarmi un pochettino verso destra
e avvicinarmi di più con il piede allo zoccolo a cui era fissata la spi-
na. — Sei venuta a letto con me. Te la godevi davvero, oppure si
trattava di una finta?
La pistola non si mosse di un millimetro, ma per un istante i
suoi occhi si ammorbidirono.
— Non era una finta — ammise infine. — Ho scoperto subito
chi eri sin da quella prima sera al castello. Infatti ho ascoltato da
una derivazione il tuo raccontino al capo e ho immaginato che tu
facessi parte della schiera dei nemici. Ma mi piacevi. Sei un
bell'uomo e mi avevi eccitato, così volevo...
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— E ieri sera? — incalzai, spostando ancora un pochino il
piede a destra. — Non dirmi che hai già dimenticato tutto, non ti
crederei.
— Non è che io l'abbia dimenticato — ribatté. — E' solo fini-
to.
— Però ti piaceva, non è vero? — le domandai con un sorriso
insinuante. Ora il piede era a pochi centimetri dal filo e dalla presa.
— Non hai voglia di riprovare, Helga? Un'ultima seduta amorosa,
proprio con i fiocchi? Ricordi le altezze vertiginose a cui ti ho por-
tato, la scorsa notte? Ricordi quello che ti ho fatto?
I suoi seni si sollevarono, poi la vidi stringere i denti.
— Maledetto bastardo! — sibilò infine, togliendo la sicura
all'arma con un clic. Vidi il suo dito che si contraeva sul grilletto e
non persi tempo. Allungai il piede e diedi uno strattone al filo. La
luce si spense e io mi scostai fulmineo mentre una detonazione rim-
bombava per la stanza, a pochi centimetri dalla mia testa. Poi, con
altrettanta rapidità, tesi il braccio e afferrai Helga per un ginocchio.
Frattanto era esploso un secondo sparo e la pallottola si conficcò nel
soffitto. Helga cadde all'indietro e io le fui subito sopra e cercai di
impossessarmi della pistola. Lei riuscì ad ingannarmi quando la
mollò di colpo ed io perdetti l'equilibrio finendo a faccia in giù.
Bastò quell'attimo perché lei mi scivolasse di sotto e cercasse di
precipitarsi dal soggiorno verso la porta d'ingresso.
Le corsi dietro e vidi che saliva i gradini a due per volta. Cer-
cava riparo sul tetto.
Stavo per raggiungerla in cima alla rampa, ma lei riuscì a
sbattermi in faccia l'uscio del solaio e per poco non mi appiattì il
naso.
Per sua sfortuna non c'era la chiave nella serratura. Entrai
anch'io. C'era buio, lassù, ma la scorsi accanto a un piccolo lucerna-
rio perché il riflesso dell'illuminazione stradale stagliò la sua figura.
Capii che voleva balzare da quella finestrella al tetto della, ca-
sa accanto. Ma la casa accanto era assai più bassa della sua.
— Non fare la cretina! — gridai. — Se cerchi di scappare di lì
ti ammazzi!
Era troppo terrorizzata per darmi retta. Aprì la vetrata e si tuf-
fò.
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Il silenzio della notte venne lacerato da un urlo lungo e ango-
scioso.
Girai sui tacchi per andarmene. Avrei voluto compiangerla ma
non vi riuscii. Mi rincresceva soltanto che se ne fosse andata senza
fornirmi il resto delle informazioni di cui avevo bisogno e che non
avevo fatto in tempo ad estorcerle.
Di colpo mi sentii stanchissimo. Avevo passato due giorni e
due notti davvero estenuanti, a pensarci bene.
Filai giù dalle scale e uscii in fretta da quella casa, prima che
qualcuno desse l'allarme e arrivasse qualche poliziotto. Questi non
erano Vopo, ma sarebbero stati imbarazzanti lo stesso. E io non
avevo voglia di subire interrogatori di alcun genere.
Un alberghetto di seconda categoria fu ben lieto di darmi una
stanza, ed io fui ben lieto di entrarci e di buttarmi subito tra le coltri.
Mentre chiudevo gli occhi mi dissi che l'indomani avrei dovu-
to scoprire dove si sarebbero incontrati Abdul Ben Mussaf e il baldo
nazista della razza eletta. Bisognava che trovassi il modo di assiste-
re a quella riunione; ero certo che in caso di successo sarei stato
ripagato di tutte le arrabbiature di quei due giorni.
7
La mattina dopo, mentre prendevo una robusta tazza di Deutsche
Kaffee, cercai di riordinare quella matassa di pensieri ingarbugliati
che mi ronzavano in testa come calabroni impazziti. A dispetto dei
suoi dinieghi, era chiaro che Helga aveva fatto parte della combric-
cola capitanata da Dreissig; quel gruppo che sulle prime mi era
parso efficiente in modo diabolico. Ora però che avevo un quadro
più chiaro constatavo che nell'insieme erano risultati piuttosto
pasticcioni.
Mi dissi con un soddisfatto senso di trionfo che ormai sapeva-
no ciò che era accaduto alla loro biondona, e certo stavano innervo-
sendosi; forse cominciavano a rendersi conto che il loro avversario
non era poi tanto scemo. Nonostante ce l'avessero messa tutta per
eliminarmi e avessero cercato pure di lasciarmi nei pasticci a Berli-
no Est, il risultato non si poteva dire confortante: avevano perso sei
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uomini, più Helga. E io circolavo ancora. C'era di che diventare
inquieti davvero.
Un'altra cosa curiosa: per quanto mi fossi preoccupato di
sventare i piani di quel Dreissig, che ormai mi sembrava di conosce-
re bene, non l'avevo mai visto neanche in fotografia. Mi domandai
che tipo era. Il biondo ariano della razza eletta? Alto, basso, violen-
to, tranquillo? Padrone di sé nelle emergenze, oppure andava a
pezzi di fronte alle difficoltà?
Non si trattava di una curiosità oziosa da parte mia. Certe cose
hanno la loro importanza e possono dare un'idea di ciò che ci si
deve aspettare e di come si debba agire. In fondo sapevo una cosa
sola di lui: che cullava dei grossi progetti e delle grosse ambizioni.
E la vera portata di queste ambizioni non la conoscevo ancora del
tutto.
Continuai a riflettere anche su ciò che mi aveva detto Helga a
proposito di Ben Mussaf. Quella sera stessa sarebbe arrivato con
una grossa partita d'oro, e lei stava preparando la valigia per andar-
sene e assistere alla riunione. Solo una piccola valigia con il neces-
sario per la notte, il che significava forse che non intendeva fare un
lungo viaggio. O sì? Difficile indovinare, con quella donna. Aveva
usato la tecnica di basare le sue finzioni su fatti veri. S'era accordata
con il "cugino" Hugo perché mi accompagnasse a Berlino Est con
un camion, ed effettivamente a-vevo trovato il camion. Ma il "cugi-
no" era fasullo.
Mi aveva trascinato in un castello sul Reno che senza dubbio
conosceva dalle cantine alle soffitte, perché vi si aggirava con molta
disinvoltura. Ma ero pronto a scommettere che anche quello "zio"
nominato in modo così vago era fasullo. Non credevo di sbagliare
ritenendo che lo zietto fosse Dreissig. Per tenere delle riunioni se-
grete non c'era posto migliore di un vecchio castello isolato. Anche
per nascondervi dell'oro quel posto era l'ideale. Rammentai quelle
porte chiuse a sinistra, che Helga aveva evitato con tanta cura men-
tre mi faceva visitare il maniero. Ma certo, il luogo del convegno
non poteva essere che quell'antico Schloss sul Reno. Infatti aveva
fatto saltare il battello proprio lì nei pressi, la furba, così avrebbe
potuto tornare a casa ad asciugarsi, dopo l'immersione nel fiume.
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Cominciai a fare qualche rapido calcolo. Controllai il numero
delle miglia che separavano Berlino da quella località, tenendo con-
to anche della perdita di tempo inevitabile ai vari posti di controllo
sull' Autobahn. Ci sarebbero volute al minimo quattro ore. Avevo
bisogno di una buona macchina veloce, ma non me la sentivo di
rivolgermi ai noleggiatori d'auto. C'era il rischio che quelli fossero
tanto in gamba da tenerli d'occhio tutti, prevedendo che mi sarei
procurato un'altra macchina dopo la distruzione della Opel.
Chissà se Lisa Huffmann aveva già la Mercedes nuova... In tal
caso avrei potuto prenderla in prestito ancora una volta. Non potei
fare a meno di sogghignare mentre uscivo dalla Kaffeehaus. Mi sta-
vo già raffigurando la faccia che avrebbe fatto la ragazza.
Venne ad aprirmi lei. Indossava un golfino di lana rossa, mol-
to aderente, e un paio di pantaloni a quadretti bianchi e blu, assai
ben fatti ed eleganti. Feci uno sforzo tremendo per non fissare con
troppa insistenza quei seni rivolti all'insù. La guardai bene in faccia
per vincere la tentazione, e vidi che alzava un sopracciglio e abboz-
zava un sorriso mezzo divertito e mezzo curioso. Mi inchinai e la
salutai con la massima compitezza.
— Debbo osservare che saltate sempre fuori nei momenti più
impensati — disse.
— E' un vizio — confessai con un sorriso. — Come va la
macchina nuova? Ve l'hanno già consegnata?
— Qualcosa mi dice che dovrei rispondervi di no — ribatté
fissandomi perplessa. — Invece me l'hanno portata proprio ieri. E'
identica all'altra, ma color crema.
— Bene — commentai, e non riuscii a nascondere un certo
tono mortificato. — Vorrei che me la prestaste.
Adesso alla perplessità si aggiunse pure un'espressione incre-
dula.
— Scherzate, vero?
— Purtroppo non sono stato mai così serio in vita mia. — Nel
dirlo mi venne da ridere e dovetti ridere contro la mia volontà.
Quella faccenda era troppo assurda e ridicola anche per il mio vivo
senso dell'umorismo. Lisa Huffmann mi guardò, poi scoppiò in una
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risata pure lei. Il nostro fu un duetto molto affiatato e durò un pez-
zo.
— Questo è troppo, in verità — disse infine la ragazza tra i
singulti. — Avete portato il libretto degli assegni, perlomeno?
— Stavolta non ne avrò bisogno — risposi cercando di ricom-
porrai con uno sforzo. — Non ho alcuna intenzione di distruggerla.
— Niente binari?
— Niente binari.
— Nemmeno una banda che ci spara alle spalle? — mi do-
mandò quasi delusa.
— Nemmeno la banda.
— Neanche la banda dei vigili? Con i loro tromboni? Sapete
come siamo matti per quella roba qui in Germania.
— No, proprio niente.
— Che diamine, l'altro giorno avete fatto una gita piuttosto
costosa — osservò rifacendosi seria. — Non sarebbe più convenien-
te prendere una macchina a nolo?
Feci per dire qualcosa ma lei mi prevenne:
— Lo so, lo so, per adesso non potete spiegar nulla, quindi...
— Vedo che state imparando — dissi con un sorriso di appro-
vazione. Poi mi venne un'idea all'improvviso. In fondo la Mercedes
mi serviva soltanto per arrivare sin là. Dopo mi sarei arrangiato da
solo, come facevo sempre, e avrei affrontato le incognite che mi at-
tendevano, qualunque fossero, senza più coinvolgerla.
— Perché non venite con me? — le domandai. — Quando
avrò raggiunto la località che cerco me ne andrò per conto mio, e
voi ve ne tornerete a casa tranquilla e con la macchina tutta d'un
pezzo.
Ci pensò per un momento.
— L'idea non mi dispiace — disse. — Domani infatti la mac-
china ci occorre, perché zia Anna ha bisogno di fare un giro di
acquisti. Se vengo con voi, almeno sono sicura di rientrare in gior-
nata.
— Magnifico — convenni. — Inoltre potrete tener d'occhio la
Mercedes.
Scomparve all'interno, ma uscì subito con le chiavi in mano e
la borsetta.
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Andammo a prendere la Mercedes 250-SL in un garage
all'angolo, e partimmo subito.
Mi congratulai con me stesso per il lampo di genio che m'era
venuto. C'era qualcosa di rinfrescante in Lisa Huffmann. Aveva del-
lo spirito ed era molto sportiva. Il viaggio con lei sarebbe stato assai
più piacevole. Non facevo mai dei progetti a lungo raggio perché di
solito ignoravo ciò che mi attendeva. Perciò avevo sviluppato da un
pezzo la tendenza a godermi le occasioni buone ogni volta che mi
capitavano. Solo avrei fatto un viaggio lungo e noioso. Con lei sa-
rebbe stato diverso. Una bella compagna modifica tutto. E Lisa era
proprio bella.
Filammo sull' Autobahn e constatai che non era solo bella.
Conversava con spirito e intelligenza. Fisico desiderabile e intelletto
stimolante. Che volevo di più? I pantaloni non riuscivano a nascon-
dere la forma allungata delle sue cosce e il vitino sottile. I seni non
erano certo rigogliosi come quelli della fu Vichinga, ma avevano
qualcosa di provocante nella linea, com'era provocante quel mento
un po' ritto. Gli occhi da gazzella erano pronti al riso anche quando
le labbra non lo sembravano. Conclusi osservando che quel suo
aspetto composto e contenuto rifletteva un notevole equilibrio. Un
equilibrio che la spingeva a prendere la vita come veniva e ad ap-
prezzarne i lati sorprendenti.
— Dove avete imparato l'inglese? — le domandai ad un certo
punto.
— A scuola.
— Be', debbo dire che i vostri insegnanti erano fantastici —
commentai.
— Infatti. E non dimenticate che ho visto tutti quei films ame-
ricani.
Come vidi approssimarsi le sponde verdeggianti del Reno ne
fui dispiaciuto, a dispetto della missione che dovevo compiere senza
perder tempo. E di tempo ne avevo perso parecchio perché c'era sta-
ta una lunga e insolita serie di ritardi ad ogni posto di controllo, sia
ad est che ad ovest, e il traffico sull 'Autobahn era risultato pesante e
faticoso.
Era ormai pomeriggio inoltrato quando arrivammo sul lungo-
fiume. Di tanto in tanto durante il viaggio la ragazza aveva cercato
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di sondarmi un po', sia pure con discrezione, ma io non avevo
abboccato. Notai però che lei continuava ad osservarmi e a farsi
mille domande sul mio conto.
— Allora, avete deciso? — le domandai sorridendo. — Sono
un angelo vendicatore dalla spada fiammeggiante, o sono un super-
ladro di gioielli?
— Diciamo che ho raggiunto un compromesso — mi rispose.
— Penso che siate un po' dell'uno e un po' dell'altro, ma avviluppato
in una terza personalità. Che ne dite, signor Nick Carter?
Dovetti ridere perché ci aveva azzeccato e si era espressa mol-
to bene, usando persino qualche parola di slang. E in fin dei conti
non mi aveva dato un giudizio sfavorevole.
Scrutai con attenzione le alture e individuai i tetti e le torri di
diversi castelli che spuntavano tra il verde. Non volevo perdere la
strada proprio adesso o fare un percorso sbagliato. Volevo arrivare
dalla stessa parte, quella indicatami da Helga, tanto per evitare
complicazioni.
Finalmente lo vidi, e trovai pure la strada secondaria che si
inerpicava su per la collina. Rallentai e non tardai ad imboccare
anche il sentiero che portava al i castello. Ci entrai a marcia indietro
per permettere a Lisa di ripartire senza difficoltà. Non volevo che
procedesse oltre.
Stavo per dirle arrivederci quando tre uomini spuntarono di tra
gli arbusti e si avvicinarono alla macchina. Erano in maniche di
camicia e portavano pantaloni grigi e stivaloni di tipo militare. Sul
taschino della camicia bianca era ricamato uno scudo con due spade
incrociate. Non si trattava di un'uniforme vera e propria, ma non si
poteva dire nemmeno che fossero in borghese. La cosa si adattava
benissimo alla tecnica politica di Dreissig, sempre vaga e poco chia-
ra, che diceva e non diceva.
Uno dei tre ci rivolse la parola in tono cortese ma assai fermo.
— Questa è una strada privata.
Notai che erano tutti abbastanza giovani, che avevano gli
occhi gelidi e un fisico ben piantato.
— Oh, mi dispiace, non lo sapevo — mi scusai subito, allon-
tanandomi verso la strada principale. I miei occhi intanto avevano
scorto un altro paio di camicie bianche tra il fogliame. "Zio" Dreis-
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sig dunque era qui. Il vecchio e tranquillo Schloss si era trasformato
in un alveare piuttosto operoso. Chissà quanti giannizzeri s'era por-
tato dietro?
Continuai a scendere verso il lungofiume e imboccai una cur-
va. Adesso i guardiani non mi avrebbero più visto.
— Vi ringrazio tanto, bellezza — dissi scivolando giù dalla
Mercedes. — Io sono arrivato e mi fermo qui. E' stata davvero una
gita deliziosa e mi è piaciuta immensamente, ma è opportuno che
voi torniate a Berlino, se vi è cara la pelle. Abbiate cura di voi e del-
la macchina. Può darsi che ne abbia bisogno ancora, non si sa mai.
Lei si mise al volante e mi guardò negli occhi con aria preoc-
cupata.
— Si può sapere cosa intendete fare qui? — mi domandò sen-
za sorridere. Il fatto che fosse in pensiero per me mi lusingò, ma
neanche stavolta avevo il diritto di risponderle in maniera esaurien-
te.
— Mi dispiace, cara, ma non è venuto ancora il momento dei
quiz da sessantamila — le dissi con dolcezza. — Tornate a casa.
Forse ci rivedremo presto. E ancora mille grazie per il vostro spirito
sportivo e per la compagnia, davvero piacevolissima.
Per una volta tanto fu lei a stupirmi. Sporse il capo dal fine-
strino e mi baciò. Fu un bacio quasi tenero, dolce come il miele.
— Fate attenzione, mi raccomando... — Ora il viso era serio
serio. — Non so perché, ma mi sono affezionata a voi come una
stupida, mentre l'altra gente non mi piace per nulla. Quelli che spa-
rano, voglio dire. E mi sa che questi tipi che ci hanno mandato via
facciano parte di quella gloriosa famiglia di artificieri. Ancora igno-
ro il motivo per cui volete starvene qua solo. C'entra quel castello
lassù, vero?
Le sorrisi e le accarezzai una guancia.
— Va a casa, piccola. Mi farò vivo quanto prima.
Prima di tornare indietro me ne stetti lì fermo a guardarla
mentre si allontanava. Si era avviata adagio, con molta riluttanza.
Infine, non appena fui solo, rimontai cauto verso la stradina in sali-
ta. Ben presto gli arbusti si infoltirono e divennero un bosco vero e
proprio. Nei pressi del sentiero tagliai a sinistra e mi inerpicai su per
la collina, cercando di tenermi al riparo degli alberi per non farmi
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scorgere, ma cercando pure di star parallelo al sentiero per non per-
dere l'orientamento. Di tanto in tanto mi perveniva un suono di voci
e il rombare di qualche macchina sulla strada. Ricordavo che quel
viottolo conduceva proprio davanti al portone d'entrata, ma gli ar-
busti finivano prima; Un maledetto particolare che mi a-vrebbe
messo nei pasticci. Non potevo infatti apparire sulla radura alla luce
del giorno senza farmi scorgere da qualcuno. Lo spiazzo era troppo
ampio perché mi ci avventurassi, con quei cerberi in camicia bianca
che sorvegliavano ponte levatoio e ingresso principale.
Una sola cosa, che mi era sfuggita la prima volta, mi rallegrò
abbastanza: il fossato era tale solo di nome. Circondava il castello,
ma non aveva una goccia d'acqua. Ciò mi avrebbe forse facilitato
l'intrusione.
Senza uscire allo scoperto, feci un giro semicircolare tra gli
arbusti per raggiungere la parte posteriore del castello. Là dietro
non vidi nessuno né udii alcuna voce. Decisi di correre il rischio.
Uscii allo scoperto e scesi nel fossato asciutto. Notai un ponte di
fortuna fatto di assi che conduceva a un paio di pesanti porte di
quercia sul retro. Lo attraversai e raggiunsi una delle porte, tastan-
dola. Con mio grande stupore vidi che cedeva. Cigolava e cercava
di resistere, ma non era chiusa.
Scivolai all'interno, me la richiusi alle spalle e vidi che mi
ritrovavo un'altra volta in cantina. Mentre scivolavo tra le file di
botti, una avvisaglia nel cervello mi rammentò che quando ero
venuto lì con Helga la prima volta avevo percepito qualcosa di
stonato in quella cantina ma avevo messo in disparte quella sensa-
zione. Mi guardai bene intorno e riprovai ancora qualcosa di simile.
Ma qualunque fosse il particolare che mi disturbava, continuò a
ballonzolarmi in mente senza manifestarsi in maniera definita. Mi
faceva sempre di questi scherzi, la mia mente. Una cosa irritante,
anche se dopo finivo per scoprire di che si trattava. Prima o poi ci
sarei arrivato, ne ero certo.
Mentre salivo cauto la scaletta di pietra che portava all'enorme
salone d'ingresso, udii voci e rumori in direzione della cucina e del-
la sala da pranzo. Mi parve che fossero sedie smosse da qualcuno
che stava per sedersi a tavola, o apparecchiava.
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Mi tenni alla larga da quelle porte e salii la scala a spirale che
portava al primo piano. Dal pianerottolo che formava un'arcata sbir-
ciai il corridoio e vidi le tre porte famose, ancora chiuse. Avanzai
piano piano, sempre guardandomi intorno, e tastai ogni battente
sino a quando non giunsi al primo dei tre usci misteriosi.
Ero convinto che ci avrei trovato l'oro, in lingotti o in monete,
stipato in qualche sacco, o borsa, o cassa. Forse avrei trovato pure
delle armi e delle munizioni.
Anche qui spinsi il battente, che si aprì. Entrai pianissimo,
riaccostando la porta alle mie spalle, ma non vidi ombra di oro. Sol-
tanto delle gran piume. Piume attaccate ai relativi volatili. Una bella
fila di uccellacci in gabbie spaziose e per fortuna chiuse. Le penne
avevano un colore dorato e marrone con chiazze nere. I becchi era-
no paurosi quanto gli artigli, gli occhi maligni, la testa eretta e fiera,
tipica dell'aquila dorata, forse la più svelta e feroce nella famiglia
dei falconi. Ogni uccello stava nella propria gabbia, qualcuno in-
cappucciato e qualche altro no. E ognuno di loro era un autentico
assassino alato.
Scivolai fuori e passai alle altre due stanze. Anche là vidi solo
delle aquile e un equipaggiamento completo per la caccia con il fal-
cone. Osservai bene tutto e conclusi alla fine che Herr Dreissig
doveva essere un patito di quel vecchio sport per regnanti. Il che in
fondo si addiceva a un individuo che alimentava certe ambizioni di
grandezza. Ma era la mole dei volatili che impressionava, e il nume-
ro. Cosa se ne faceva, se non era un maniaco, di tre stanze piene di
aquile? E del tipo più aggressivo e feroce? Forse aveva escogitato
una variante sul tema della caccia d'una volta? Ricordai che qualcu-
no mi aveva detto che anche l'aquila dorata si poteva addestrare alla
caccia come il falcone. Era anche possibile che Dreissig avesse ap-
preso quello strano hobby dai suoi sceicchi arabi. Comunque quella
raccolta di uccellacci in un antico castello sul Reno aveva qualcosa
di sinistro. Forse perché ero prevenuto nei confronti del tedesco, ci
vedevo un significato minaccioso.
Nell'attraversare la stanza notai che una delle aquile mi stava
osservando con insolita curiosità. Le avevo viste in azione, quelle
care bestiole, e non ignoravo quel che potevano fare quando si av-
ventavano in libertà. Possedevano per così dire il fascino dell'orrido,
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perché erano bellissime e spaventose insieme. Erano capacissime di
fare un uomo a pezzi. Il gelo di quegli occhi insensibili mi diede un
brivido involontario di paura.
Chiusi piano anche l'ultima porta e tornai in corridoio. E ades-
so dove bisognava cercare? M'ero messo in mente che l'oro si
trovasse in quelle tre stanze chiuse, invece avevo preso una bella
cantonata.
Non ebbi il tempo di pensare a lungo perché mi pervenne un
suono di passi che salivano. Filai subito a nascondermi in una nic-
chia che ospitava una cospicua armatura antica e che per fortuna si
trovava in ombra e sbirciai.
Uno degli uomini in camicia bianca e stivali militari comparve
in compagnia di un arabo avviluppato nel "burnus". Il giannizzero
di Dreissig parlò in inglese al nuovo arrivato:
— Herr Dreissig prega il nobile rappresentante di Sua Eccel-
lenza di attenderlo qui — e gli indicò lo studio dello "Zio" di Helga.
— Tra breve sarà da voi. Vogliate scusarlo un attimo.
L'arabo si inchinò, e la guardia batté i tacchi e scomparve. Os-
servai l'uomo dal tunicone. Era un arabo dalla pelle chiara, alto,
dalla faccia grifagna. Non si vedeva gran che della sua faccia con
tutta la roba che aveva addosso. Se veniva in rappresentanza di Ab-
dul Ben Mussaf, era possibile che Dreissig non lo conoscesse.
Comunque qui urgeva rischiare, e rischiare di brutto. Per fortuna ero
molto abbronzato, e se mi fossi travestito da arabo forse sarei passa-
to, almeno tra i non arabi. Specie con quell'affare in testa e quella
specie di sudario addosso. Forse non avrei osato infilarmi in una
tenda di sceicchi, ma in un castello sul Reno avevo qualche possibi-
lità. Se quel tipo era venuto per prendere accordi con Dreissig, non
potevo lasciarmi sfuggire quell'occasione di conferire con il capoc-
cia e di trarlo in inganno. Poteva anche andarmi male, ma dovevo
tentare. E senza perder tempo.
Mi feci scivolare in mano lo stiletto. L'arabo stava sulla porta
dello studio e mi voltava le spalle. Dovevo eliminarlo alla svelta,
farlo, sparire e prendere il suo posto. Non potevo permettermi di
stordirlo soltanto, perché avrebbe potuto riprendersi sul più bello e
interrompere il mio colloquio con Dreissig, smascherandomi.
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Lo assalii in silenzio, senza che si accorgesse di nulla, e gli
piantai la lama nella carne. Barcollò, poi scivolò sul pavimento
come un mucchio di stracci.
Mi mossi come un fulmine, togliendogli "burnus", turbante e
tutto il resto, e infilandomi quella roba al posto suo. Sapevo già
dove avrei nascosto il cadavere, però ero ben lontano dall'imma-
ginare quanto sarebbe stato faticoso ficcare un corpo morto entro
un'armatura antica. Mi parve di metterci un anno. Alla fine sudavo
abbondantemente. Abbassai la celata con mano tremante e osservai
la mia opera. Mi parve tutto a posto.
Avevo ragione di sudare. Appena finito di ricacciare l'armatu-
ra con relativo contenuto nella nicchia, udii un suono di passi che
salivano e mi affrettai a tornare sulla porta dello studio di "zietto".
Poco dopo apparve un tipo alto, vestito di grigio. Occhi azzur-
ri e gelidi, inequivocabile razza ariana,, capelli ondulati e bion-
dissimi, struttura atletica. La faccia era un po' troppo imperiosa per
apparire simpatica, ma era tuttavia d'una bellezza da idolo dello
schermo o della canzone.
Mi tese la mano e la stretta che mi diede per poco non stritolò
la mia. Doveva essere pure un patito della cultura fisica, accidenti a
lui.
Mi rivolse un sorriso disarmante da buon fanciullone, forse un
po' troppo meccanico. Ma io ero un ipercritico. Sapevo benissimo
che su una pedana da oratore avrebbe avuto un successo enorme.
— Lieto di conoscervi, Ben Kemat — mi disse in perfetto in-
glese. Ed io ebbi la tentazione di tirare un grosso respiro di sollievo
vedendo confermata la speranza che i due non si conoscessero. —
Immagino che anche con voi vada bene la procedura che uso con
Sua Eccellenza.
Vide che lo fissavo con l'aria di non capire e mi spiegò subito:
— Alludo alla lingua inglese. Il tedesco di Sua Eccellenza non
è proprio perfetto, e la mia conoscenza dell'arabo è limitatissima.
Ma sappiamo tutti e due l'inglese, perciò...
— Oh, sì prego — risposi con un mezzo inchino. — Anche
per me l'inglese va benissimo.
Dreissig mi fece strada nell'ufficio. Notai che aveva appeso a
una parete una grande carta geografica di Israele e dei paesi arabi
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circostanti. Dreissig mi invitò con un cenno ad accomodarmi, ed io
sedetti proprio davanti alla carta. Il mio anfitrione continuò a sorri-
dere, ma vidi che mi squadrava dalla testa ai piedi con espressione
calcolatrice.
— Non sembrate arabo — disse.
— Mio padre era inglese, infatti. Ma mia madre mi ha allevato
in Arabia e mi ha imposto il suo nome. — La mia spiegazione fu
casuale quanto la sua osservazione.
— Dunque, abbiamo disposto ogni cosa nella maniera più
semplice, in attesa dell'arrivo di Sua Eccellenza — mi comunicò
subito. — Ho saputo che sarà qui verso mezzanotte, e che la spedi-
zione dell'oro è stata fatta alla solita maniera. Penso che anche l'oro
sarà qui prima dell'alba. I miei uomini lo scaricheranno e lo deposi-
teranno. Come immaginerete, solo uomini di assoluta fiducia
prendono parte alle nostre operazioni qui al castello. Domani ci
prenderemo qualche svago, faremo un po' di sport e di caccia. Ho
saputo che Sua Eccellenza porterà due dei suoi esemplari migliori di
aquile.
Assentii. Per il momento non potevo far altro.
— E dopo cena — continuò Dreissig — faremo i nostri piani
sull'inizio delle nostre mosse coordinate.
Mi sarebbe piaciuto sapere di più, ma non vedevo come avrei
potuto indurlo a parlare di quel piano. Decisi di lanciargli un'esca
per vedere se ci sarebbe cascato.
— Sono qui appunto per apprendere la maggior parte dei par-
ticolari che riguardano l'operazione — cominciai. — Ma domani
non sarò presente e non potrò partecipare alla vostra discussione.
Perciò Sua Eccellenza vi prega di illustrarmi il vostro piano a grandi
linee. Ha detto che solo voi, Herr Dreissig, siete in grado di fornirmi
quegli elementi che è così importante comprendere anche nelle mi-
nuzie.
In cuor mio mi congratulai con me stesso. Per essere uno che
brancolava nel buio me la cavavo abbastanza bene. Dreissig si gon-
fiò subito come un pallone e fece la ruota come un pavoncello
vanitoso.
— Lo farò con piacere, Ben Kemat — rispose puntando l'in-
dice verso la carta geografica di Israele e dintorni. — Lì c'è il
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nemico, vostro e mio, anche se per motivi ideologici diversi. Israele
è il nemico naturale dei popoli arabi, e lo è stato per secoli e secoli.
Gli ebrei vogliono comandare e ridurre in schiavitù gli arabi. Oggi
come oggi questa gente non ci dà più fastidio in Germania, però è
ben decisa a combatterci da fuori. Israele è il centro emozionale
degli ebrei, come sapete. E se gli si strappa il cuore, il nemico è
morto. Per questo dobbiamo cancellare Israele dalla faccia della
terra.
Fece una breve pausa e si versò un bicchier d'acqua da una
caraffa che teneva sullo scrittoio.
— Gli ebrei manovrano dall'esterno contro la riunificazione
delle due Germanie, e manovrano contro un fronte arabo unito. La
pace nel mondo verrà soltanto a patto che quella gente abbandoni
Israele e la smetta di complottare contro la Germania. Ma non lo
faranno certo spontaneamente. Sua Eccellenza l'ha capito benissi-
mo. Bisogna costringere gli ebrei a riconoscere i loro torti. I russi
non vi aiuteranno mai a combatterli in modo efficace, salvo con un
po' di materiale bellico. I soldati sovietici non valgono gran che,
fuori da casa loro. Non sono equipaggiati per combattere al caldo e
tra le sabbie del deserto. Non parliamo poi degli americani, che non
vi appoggerebbero mai a sconfiggere gli ebrei, in quanto li hanno
sempre protetti. Perciò il mondo arabo ha bisogno di un esercito
istruito ed equipaggiato dai tedeschi. La forza dei guerrieri arabi,
guidata dal genio militare germanico, distruggerà Israele una volta
per tutte. I miei consiglieri militari hanno già preparato tutti i neces-
sari piani bellici. Useremo, come ho già spiegato a Sua Eccellenza,
la tecnica già adottata da Rommel. In più ci saranno alcune innova-
zioni moderne, perché negli ultimi anni abbiamo fatto grandi
progressi in certi campi. Taglieremo Israele in tre parti, poi piombe-
remo dentro e ci passeggeremo in lungo e in largo. Sarà di nuovo il
vecchio s chwerpunkt und aufrollen usati simultaneamente in tre
punti scelti con cura. Vi assicuro che dopo nessuno parlerà più di
Lawrence d'Arabia. Quando avremo fatto piazza pulita per sempre,
passerà alla storia soltanto il nome di Heinrich d'Arabia. E il mondo
non lo dimenticherà mai, ve lo garantisco.
Per poco non scoppiai in una risata. In cuor mio dissi: "No
caro, con quel nome non passerai certo alla storia..." Ma lui era così
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gonfio di esaltata prosopopea che non si rendeva conto di essere
ridicolo. Eppure qualunque persona di buon senso ascoltandolo lo
avrebbe trovato troppo buffo e si sarebbe guardato bene dal pren-
derlo sul serio. Però... Mi venne in mente un altro tipo con un nome
tutt'altro che glorioso, un nome da commedia musicale: Adolf Schi-
ckelgruber. Era diventato Adolf Hitler e aveva fatto del suo meglio
per imporsi al mondo, non esattamente con le buone maniere. A ri-
pensarci non mi parve più tanto assurdo Heinrich d'Arabia. Tutto è
possibile, ormai...
Frattanto Dreissig si era ributtato nella sua fervida concione e
dovetti ascoltarlo di nuovo. Gli brillavano gli occhi e aveva una
voce tonante e ispirata. Stesso tipo di contorto evangelismo che non
molti anni prima aveva fatto esplodere il mondo in una guerra ese-
crabile e ingiusta. Adesso veniva esibito con maggiore furberia e
minore brutalità, ma era due volte più pericoloso. Mentre gli presta-
vo orecchio con l'aria di approvarlo, continuavo a sentire la eco di
antichi ritornelli che erano stati modificati solo un poco, ma conti-
nuavano a seguire la stessa musica. Vino nuovo in bottiglie vecchie,
insomma.
— Dovete capire — continuò il novello Profeta — che la no-
stra ostilità verso gli ebrei non c'entra con il razzismo d'un tempo.
Non è la loro razza che odiamo, ma la politica che hanno adottato.
E' la posizione di vantaggio che hanno raggiunto nei confronti dei
popoli arabi, grazie agli aiuti militari che ricevono di continuo.
Odiamo la violenza con la quale si oppongono alla riunificazione
della Germania, una violenza rafforzata dal loro potere economico e
dagli appoggi influenti di cui godono. Per questo ci muoveremo su
due fronti: quello politico qui in patria, da me diretto, e quello mili-
tare contro Israele. Quando tutto sarà finito, il mondo intero dovrà
inneggiare ai nomi di Heinrich Dreissig e di Abdul Ben Mussaf!
Sempre la stessa storia, mi ripetei. La vecchia storia dei ditta-
tori camuffati da salvatori del mondo. Il lupo in veste d'agnello, il
predone in veste di Messia...
Dalla finestra alle sue spalle vidi che era calato il crepuscolo.
Bisognava dare una scrollatina a quel brav'uomo e farlo tornare per
un momento sulla terra. Avevo ancora alcune domande importanti
da fargli.
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— Un punto di vista davvero glorioso, Herr Dreissig — os-
servai con un mezzo inchino. — Infatti Sua Eccellenza me lo aveva
già illustrato in parte. Certo che dette da voi le cose assumono un
significato diverso e un'efficacia maggiore. A proposito, l'oro arri-
verà con il solito sistema?
— Sì, verrà caricato su chiatte che arriveranno lungo il Reno,
e scaricato al mio imbarcadero privato.
— Molto bene — sorrisi.
Il colloquio era stato davvero ricco di informazioni, assai più
di quanto il mio amico neo-nazista non pensasse.
Stavo per fargli la domanda più difficile ed esitavo perché non
sapevo come rivolgergliela. Mi sarebbe piaciuto infatti sapere dove
avrebbe nascosto l'oro, ma... non potei dir nulla. Udii un clamore di
voci nel corridoio, poi tre guardiani entrarono trascinandosi dietro
una quarta persona. Una ragazza in camicetta rossa di cashmere e
pantaloni blu a quadretti bianchi.
Chiusi gli occhi e cercai di non mostrare quel che sentivo.
Maledizione. No, forse sognavo. Forse riaprendo gli occhi non l'a-
vrei più veduta. Ma non fu così. Stava proprio lì davanti a me.
— L'abbiamo pescata a curiosare qua intorno. Stava un po'
troppo vicina al portone e cercava di infilarsi dentro — disse una
delle guardie. Ero sicuro che Lisa non mi aveva riconosciuto così
camuffato. Del resto non mi aveva neanche rivolto uno sguardo.
Fissò invece Dreissig con espressione gelida.
— Ho perso la strada e i vostri energumeni mi hanno agguan-
tato come se fossi stata una delinquente — gli disse con voce
altrettanto gelida. Dreissig la guardò e si limitò a sorridere senza
commentare.
— Può darsi che lavori con l'agente americano — disse infine
ai suoi uomini. — Portatela giù nella stanza delle torture. La faremo
parlare anche troppo presto. — Poi si volse a me. — Questi vecchi
castelli per certe cose risultano ancora utilissimi. La camera medio-
evale delle torture in cantina è di un'efficacia enorme. Al giorno
d'oggi non sono stati ancora capaci di inventare niente di meglio, a
dispetto del progresso moderno. E' vero che l'automazione non ser-
ve a nulla. E' così soddisfacente occuparsi di certe cose di persona e
con raffinatezza...
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Percepii una nota così crudele nella sua voce che strinsi i denti
per impedire a me stesso di balzargli alla gola. Quell'uomo doveva
essere un maledetto sadico, e già pregustava lo spasso che si sareb-
be preso con la ragazza.
Una guardia afferrò Lisa per un braccio per condurla via, ma
lei si liberò con uno strattone e uscì sola e a testa alta. Fiera quanto
mai, e sdegnosa.
"Lisa Huffmann – dissi in cuor mio – se non ti fanno fuori, ci
penserò io a darti una dose così nutrita di sculaccioni, che per un
mese non sarai in grado di sederti!"
8
Dreissig mi invitò allo spuntino che intendeva fare prima dell'im-
portante cena di mezzanotte che aveva organizzato per l'arrivo di
Ben Mussaf. Accettai per non apparire scortese, ma il pensiero di
Lisa mi aveva tolto ogni appetito. Non riuscivo a togliermela dalla
testa, con un misto di emozioni che passavano dalla collera per la
sua dannatissima curiosità, alla paura per la sorte che le sarebbe
toccata. Dreissig, a dispetto della sua retorica pomposa e gonfia di
echi hitleriani faceva sul serio. Anche se ostentava delle ridicole
idee di grandeur da generale d'operetta non si aveva il coraggio di
ridere di lui. Dietro i luoghi comuni e la propaganda ben lustrata si
nascondeva l'animo di un pericoloso dittatore, su ciò non avevo
dubbi.
Mi venne la tentazione di tirar fuori la mia Luger Wilhelmina
e fargli saltare le cervella subito, lì sul posto, ma non osai. Non
sapevo ancora quanto avesse preso a prestito dal suo defunto mae-
stro, Adolf Hitler. Se i suoi seguaci erano imbevuti della stessa
filosofia da Götterdämmerung, la morte del capo poteva scatenare
un'orgia di delitti e di autodistruzione. E ci sarebbe andata di mezzo
pure Lisa. Senza contare me. Dopotutto non ero immortale, anche
se mi reputavo assai fortunato e sapevo cavarmela con astuzia.
Quelli erano tanti, maledizione.
No, meglio attendere. Dreissig era pericoloso, anche se il suo
nome simboleggiava solo un numero modesto, troppo modesto per
le sue ambizioni: trenta. Fosse stato il signor Trentamila, almeno...
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Be', intendevo tenere a bada la pericolosità di Herr Trenta, e nello
stesso tempo vedere sin dove si sarebbe spinto Ben Mussaf e sino a
che punto avrebbe seguito la follia delirante del suo camerata tede-
sco. Avevo l'impressione che all'arabo interessasse soltanto la
possibilità di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, e cioè ribel-
larsi a Nasser ma nel contempo togliersi dai piedi quel fastidio di
Israele. A questo scopo aveva accettato gli attraenti piani militari di
Dreissig che gli prospettavano il raggiungimento del suo doppio
scopo. Forse in lui non vi era quell'antisemitismo feroce e contorto
di cui il tedesco era pervaso. In genere gli arabi sono dei materiali-
sti, e il loro positivismo cominciava ad avere una certa influenza
persino sul vecchio odio per Israele, in quel periodo. C'erano già dei
gruppi che ammettevano ed accettavano l'esistenza di quello Stato
con rassegnato realismo, se non con piacere. Erano i duri a morire
di ambo le parti che non volevano capirla, e cioè i ricconi come Ben
Mussaf e gli attivisti politici come Nasser. Entrambe le categorie
preferivano che la pentola continuasse a bollire. Però sarei stato
pronto a scommettere che se Ben Mussaf avesse assistito al naufra-
gio del suo nuovo amico, si sarebbe affrettato a raccogliere le sue
fìches e andare a giocare da un'altra parte. Il suo innato realismo
avrebbe avuto il sopravvento. Comunque valeva la pena di fare un
tentativo. Tanto più che non avevo scelta sino a quando non fossi
riuscito a mettere in libertà quella sconsiderata di Lisa Huffmann.
Lo "spuntino" risultò una cosa talmente lunga e interminabile
che a un certo punto domandai a Dreissig il permesso di alzarmi da
tavola (lui ne aveva ancora per un pezzo) per far due passi. Lo pre-
gai di lasciarmi vedere la camere delle torture, e lui diede ordine a
una delle sue guardie di mostrarmi la strada che conduceva alle can-
tine. Scesi per l'angusta scala di pietra che ormai conoscevo. La mia
guida mi fece oltrepassare i locali che contenevano le botti di vino e
mi accompagnò in un altro sotterraneo ancora più profondo, che
Helga si era guardata bene dai mostrarmi e al quale si accedeva per
una seconda scala nascosta dietro una porta. In una specie di vasta
anticamera vidi delle pile di casse lunghe di legno imputridito e ri-
conobbi con un brivido delle antiche bare. Il locale era illuminato da
torce a kerosene.
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— Dato che non usiamo molto questi locali — mi spiegò il
mio accompagnatore — Herr Dreissig non ha ritenuto opportuno
farvi installare l'elettricità. E del resto questo tipo di illuminazione
si addice di più all'atmosfera, non vi pare?
— Senz'altro — convenni.
Vidi appena entrato nell'altra stanza un uomo nudo e incatena-
to a una parete, e mi dissi che pure lui si addiceva molto
all'atmosfera.
— Ha tentato di derubare Herr Dreissig — mi disse la guar-
dia. — Il castigo finale glielo daranno domani, a quanto ho sentito.
Osservando l'uomo notai che non si erano limitati a dargli una
tiratina d'orecchi. Aveva il petto e le braccia solcati da strisce rosse
e sanguinolente, e si vedevano parecchi segni di bruciature sull'ad-
dome. Un piccolo svago che qualcuno si era preso prima di inflig-
gergli il "castigo finale".
Da lì passammo a quella che doveva essere la camera princi-
pale. Conteneva una spaventosa collezione di strumenti di tortura,
sia alle pareti che al centro. Oltre all'assortimento di fruste e catene
vidi la famosa ruota, un altro aggeggio che serviva a stirare e disar-
ticolare le membra, anelli di ferro infissi al muro per appendervi le
vittime, caldaie per arroventare gli attizzatoi, e un mucchio di altri
articoli affascinanti di cui potevo raffigurarmi l'uso.
Le tre guardie avevano portato Lisa in mezzo allo stanzone.
Alla luce tremula delle torce vidi che uno l'aveva afferrata per i pol-
si e glieli teneva imprigionati dietro la schiena mentre gli altri due la
svestivano. Ero arrivato in tempo per il tocco finale. Le stavano sfi-
lando le mutandine, infatti, nere con dei ricami rosa. Lei aveva gli
occhi pieni di lacrime, le guance rosse e umide. I suoi seni erano
proprio come li avevo immaginati: belli, piccoli, sodi e rivolti all'in-
sù. In un altro momento mi sarebbero apparsi invitanti, ma ora
avevo la testa un po' confusa. Il che non mi impedì di notare le
splendide gambe lunghe, la perfezione delle cosce e la delicatezza
delle caviglie, la snellezza della figura e il bel pancino piatto.
Sarebbe stata proprio desiderabile, se non avessi avuto altro per la
testa.
Mi tenni nell'ombra e osservai uno dei tre che allungava una
zampa e le afferrava un seno. Lisa riuscì a liberare un braccio con
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uno strattone e gli artigliò la faccia singhiozzando di rabbia. L'uomo
fece un balzo indietro, si accorse di sanguinare e le mollò un man-
rovescio. Lisa ricadde all'indietro, contro la ruota, e subito gli altri
due la agguantarono e la legarono con delle cinghie a quello stru-
mento di tortura. Fu una cosa di una brutale semplicità. La vittima
veniva inchiodata mediante delle cinghie di cuoio che le stringeva-
no le cosce, l'addome e i polsi. Ogni giro della ruota serrava ancor
di più i lacci, provocando un dolore atroce e fermando la circolazio-
ne. E di mano in mano che la morsa si faceva più crudele, il dolore
diventava insopportabile.
Il mio cicerone mi spiegò:
— A volte i reni ed altri organi restano spappolati dalla pres-
sione. Eppure c'è gente che nonostante questo resiste e continua a
vivere ancora per dei periodi incredibilmente lunghi.
— Fantastico — mormorai a denti stretti, fingendomi affasci-
nato dallo spettacolo.
Fecero girare la ruota al completo e vidi la cinghia conficcarsi
nell'addome di Lisa. Le sfuggì un lungo gemito di pena, e vidi i suoi
occhi spalancarsi per il terrore. Solo ora si rendeva conto di quel
che le stavano facendo.
— Chi ti ha mandato qui? — le domandò uno dei suoi tortura-
tori dando un altro giro di vite.
— Nessuno! — strillò Lisa. — Smettetela, oh, per carità,
smettetela!
Altro giro.
Il bel corpo di Lisa si inarcò tutto contro le cinghie. Stavolta il
suo grido fu così lacerante che echeggiò a lungo in quella specie di
caverna. Adesso le guardie se la stavano godendo e la osservavano
compiaciuti. Il più eccitato dei tre fece girare la ruota ancora una
volta e la fissò con la bava alla bocca. Non era dunque sadico sol-
tanto il capoccia. Si era scelto degli adepti degni di lui...
Adesso l'urlo di Lisa divenne una sorta di grugnito strangola-
to. Vidi il suo stomaco che si contraeva nel tentativo inutile di
liberarsi da quella morsa. Piangeva da strappare il cuore, ma la sua
pena atroce non riusciva certo ad intenerire quei quattro bruti che la
guardavano sghignazzando, compresa la mia guida.
91
Mi ero tenuto in disparte nella speranza che l'avrebbero pian-
tata, magari in attesa che arrivasse il capo a giocare un po'. Nel
frattempo avrei escogitato un sistema per tornare laggiù e cercare di
liberarla. Ma quando vidi che uno degli energumeni stava per dare
un altro giro alla ruota capii che non l'avrebbero smessa. Si diverti-
vano troppo.
Allora decisi di intervenire. A pochi centimetri dalla mia ma-
no c'era una pesante sbarra di ferro, destinata a chissà quale svago
gentile. L'afferrai fulmineo e la calai con forza sulla testa del mio
accompagnatore, che si afflosciò subito. Il trio non se ne accorse
nemmeno perché era troppo intento a sbavare su quel corpo splen-
dido che si contorceva. Mollai un colpo al più vicinö che mugolò.
Gli altri due si volsero stupiti ed io cacciai subito la sbarra nello
stomaco dell'uno, mentre l'altro si frugava in tasca per prendere la
pistola. Non ci riuscì. Lo colpii alla mascella con la punta della
sbarra, e lui si abbatté sul suo compagno. Al diavolo tutto quanto,
mi dissi. Tanto mi avrebbero smascherato lo stesso, all'arrivo di Ben
Mussaf.
Liberai Lisa dalle cinghie e la misi a sedere sul pavimento in
attesa che riprendesse un po' di respiro. Alzò gli occhi e mi rico-
nobbe.
— Oh... Nick!
Con un gesto di istintivo pudore afferrò il golf e se lo mise
davanti al seno.
— E' inutile far la pudibonda adesso — le dissi in tono ruvido.
— E del resto è troppo tardi. Vestitevi pure, e vedremo cosa
possiamo fare.
Mi strappai di dosso "burnus" e turbante che mi davano un
gran fastidio e mi impacciavano i movimenti, mentre lei si rimette-
va pantaloni e maglietta. Poi afferrai Lisa per un braccio e filai su
per la scala.
— Entriamo qui — dissi accompagnandola in una delle canti-
ne da vino.
Era un nascondiglio come un altro, per adesso. Si sarebbero
messi a darci la caccia anche troppo presto, non c'era da farsi illu-
sioni. Ci accoccolammo nell'angolo più buio, dietro una fila di botti
enormi.
92
— Oh, il mio povero stomaco — si lagnò Lisa massaggiando-
selo.
— Credo che non sarà mai più quello di prima. Debbono
avermelo sfondato.
— Vi rimetterete, e presto — la rassicurai, ma sempre in tono
risentito. — Avevano appena cominciato. Sono intervenuto perché
ho capito che non ce l'avreste fatta più. Vi dirò una cosa: se riesco a
farvi uscire viva da questo posto, vi rispedisco sino a Kaiserlautern
Strasse a pedatoni. Ma che razza di idea balorda vi è venuta? Eppu-
re vi avevo raccomandato di filare subito a casa se tenevate alla
pelle!
— Scusatemi — mormorò tutta compunta. — Non ho fatto
che peggiorare le cose per voi, vero? Ma io cercavo di aiutarvi. Sen-
tivo che qui c'era qualcosa di misterioso e che vi stavate cacciando
in qualche pasticcio. Volevo starvi vicina...
Si mise a singhiozzare; le misi un braccio attorno alle spalle e
bofonchiai:
— Bell'aiuto davvero!
— Potrete mai perdonarmi?
— E' meglio che lo faccia subito allora, perché non mi pare
che abbiamo molte vie d'uscita. Se non riesco a trovare un sistema
per farvi fuggire, mi toccherà lasciarvi qui sino a quando non mi sa-
rà possibile tornare a prendervi.
Strinsi i pugni, furente. Poi mi diedi una manata sulla coscia.
Che diamine, ero entrato dalla porta delle cantine, no? Perché non
tentare di uscirne? Forse ci avevano messo qualcuno di guardia, ma
si poteva sempre provare, prima che si diffondesse l'allarme.
Presi Lisa per mano e filai in punta di piedi verso le due porte
di quercia che conducevano al fossato sul retro del castello.
Di norma sono un tipo prudente e anche stavolta usai la solita
cautela. E meno male. Aprii soltanto uno spiraglietto. Mi bastò per
sincerarmi che anche la parte posteriore del vecchio Schloss era pat-
tugliata da un gruppo di fedelissimi in camicia bianca (ma
idealmente bruna) che non si trovavano certo lì per me né per Lisa.
Aspettavano qualcosa o qualcuno, ma intanto ci impedivano di usci-
re, accidenti a loro!
93
Tornammo dietro le botti e ci accoccolammo di nuovo al no-
stro posto, mortificati. Lisa mi si accucciò vicino come un cagnette
impaurito.
Io le diedi una stretta che voleva essere rassicurante ma che
risultò piuttosto distratta. Stavo osservando la fila di botti e mi
domandavo cos'altro avrei potuto escogitare per uscire di lì.
Infine le annunciai:
— Questa è una cantina fasulla.
Lei mi guardò, poi si guardò in giro, sbirciando attenta nel
buio.
— Davvero?
— Sarei pronto a scommetterci — le risposi. — L'ho intuito
subito, la prima volta che son stato qui, che c'era qualcosa di storto.
Ma non son riuscito a capire di che si trattava sino a questo momen-
to. Vedete che le botti hanno tutte il tappo alla sommità?
Lisa assentì.
— Di solito invece nelle autentiche cantine da vino, quelle che
funzionano — continuai — una parte del liquido viene travasata in
altre botti pulite e trattate con lo zolfo. Lo si fa per tre volte. Dopo il
terzo travaso la botte viene adagiata su un fianco, così il tappo ri-
mane del tutto coperto dal vino. Ciò per impedire all'aria di filtrarvi
e di guastare il prodotto. Ora nessuna di queste botti è messa oriz-
zontalmente, con il tappo a lato. Era questo che mi puzzava, sin
dall'altra volta. Ma allora non sono stato a pensarci su molto, non
ero abbastanza interessato.
Mi alzai in piedi per ispezionare la botte dietro la quale m'ero
rifugiato. Tamburellai con le dita sul legno dei fianchi, poi tastai la
sommità, e infine il fondo. Mi pervenne il suono attutito del liquido
all'interno solo nella parte superiore, insieme al vago profumo del
vino. In ultimo mi inginocchiai ed esplorai bene con le dita la parte
inferiore. Trovai subito quel che cercavo: una lieve sporgenza che
seguii con i polpastrelli. Un quadrato era stato infisso a guisa di
tappo anche sul fondo. Esercitai una leggera pressione da tutti i lati,
e infine il tassello si mosse. Ci infilai la mano e constatai subito che
da quella parte il vino non usciva. Afferrai però un oggetto duro e
pesante, avviluppato in un po' di juta. Avevo scoperto dove si na-
scondeva l'oro. Ogni botte aveva un doppiofondo. Ed ecco svelato il
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mistero! Rammentai che Helga aveva mostrato una lievissima esita-
zione quando le avevo chiesto di mostrarmi le cantine. Ma si era
ripresa subito, sicura che non mi sarei accorto di nulla. Infatti avevo
avuto soltanto l'impressione di qualcosa di incongruo, ma poi non ci
avevo più pensato.
Rimisi a posto il tassello di legno, e subito udii passi e voci
concitate lungo le scale di pietra. Avevano trovato le guardie abbat-
tute e si erano accorti della sparizione di Lisa. E vedendo il muc-
chietto di indumenti dell'arabo avevano certo immaginato il resto.
Avevo sperato che tenessero per ultima la perquisizione delle
cantine, o che addirittura vi rinunciassero ritenendolo un nascondi-
glio troppo ovvio e quindi scartato. Ma non ebbi fortuna. Per colmo
di scalogna la prima che visitarono fu proprio quella in cui ci trova-
vamo. I raggi delle torce si misero a perforare l'oscurità, e si dires-
sero pure verso l'angolo in cui stavamo accuccia-ti.
Il primo round stava per concludersi. O lottare o cedere. E
poiché non mi è mai piaciuto cedere senza prima fare almeno un
tentativo disperato, sparai un paio di colpi alle torce, udii dei gemiti
e vidi le luci disegnare un arco verso l'alto, come impazzite.
Mormorai nell'orecchio di Lisa:
— Restate appiccicata a me il più possibile. — Dobbiamo ten-
tare un fugone dall'esito assai improbabile.
Arrivammo di corsa alla scala di pietra proprio mentre altri
due giannizzeri si precipitavano giù. Wilhelmina abbaiò di nuovo
un paio di volte. Due latrati secchi che lasciarono la coppia altret-
tanto secca. Adesso eravamo a pianterreno. Volai verso un angolo
in ombra e lo oltrepassai, sempre tenendo Lisa per mano. Un'altra
mezza dozzina di camicie bianche, più bianche del bianco, si misero
a ventaglio in vari punti. Non ci avevano ancora visto, e presi un'al-
tra decisione disperata. Mi slanciai verso l'ingresso anteriore.
Volevo far fuggire Lisa e metterla in grado di raggiungere la sua
macchina. Chissà che nella confusione generale...
Non ce la feci.
Un'autentica orda ci si avventò addosso da tutte le parti, quan-
do schizzammo fuori. Ne abbattei ancora un paio, poi feci
dietrofront e rientrai nell'atrio con la mia terrorizzata compagna.
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Le pareti dell'enorme anticamera erano tappezzate da antichi e
strani attrezzi da combattimento. Con un balzo riuscii ad afferrare e
strappar giù un aggeggio dall'aria micidiale che aveva il nome deli-
cato di "Stella del Mattino". Consisteva in una sfera metallica
chiodata, appesa ad una lunga catena. L'altra estremità della catena
era fissata a un bastone.
Quando l'orda sferrò l'attacco.. Lisa si appiattì contro la pare-
te. Io cominciai a roteare quel tremendo aggeggio con tutte le mie
forze. La palla chiodata disegnò un rapido cerchio nell'aria. Ebbi la
soddisfazione di vederne a terra almeno quattro; avanzai di un passo
e ne beccai altri tre, aprendo nelle loro carni delle brutte ferite san-
guinanti. Continuai a far volteggiare l'arma e ad avanzare piano.
Be', anche nel medioevo ci sapevano fare. Non potevo proprio la-
mentarmi dell'efficacia di quella graziosa "stella del mattino".
Poi due paia di mani mi afferrarono alle spalle. Altre mani mi
agguantarono le gambe. Barcollai e cercai di continuare il mio
movimento di rotazione con la sfera. Adesso erano in molti, ma si
tenevano ad una certa distanza. Lanciai la palla nella loro direzione
e mi volsi per affrontare i tre che mi avevano abbrancato. Uno riu-
scii a distanziarlo con un destro potente. Mi stavo lavorando quello
che mi imprigionava le gambe quando qualcosa di duro mi si abbat-
té sulla testa. Le mie gambe divennero di gomma, i lastroni di pietra
del pavimento si trasformarono addirittura in gommapiuma. Un
altro colpo alla tempia e mi sentii sprofondare in un pozzo senza
fine, come accade nei sogni tormentosi, quando non si finisce mai
di precipitare. E sentivo le costole che dolevano per i colpi e le
pedate di mille avversari, trentamila, un milione. Infine piombai in
uno stato di incoscienza.
Quando tornai in me notai che l'illuminazione era viva. Udii
un mormorio di voci intorno. Pareva che i miei polsi pesassero una
tonnellata. Quando riuscii a mettere a fuoco la vista infatti constatai
che me li avevano ammanettati con due spessi braccialetti di accia-
io.
Qualcuno mi costrinse ad alzarmi con uno strattone. A poco a
poco la nebbia si diradò e infine vidi Lisa accanto a me, pure lei
ammanettata.
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Poi scorsi Dreissig, sempre vestito in modo impeccabile, ac-
canto a un tipo più basso e scuretto, avviluppato in un burnus di
lusso. Ben Mussaf era arrivato, dunque, con un piccolo manipolo di
accompagnatori che gli stavano alle spalle in silenzio. Dreissig sta-
va spiegando all'ospite con voce vibrante di orgoglio come era
riuscito ad acciuffare me e Lisa. Notai un arabo al fianco di Ben
Mussaf che reggeva due grosse gabbie, ciascuna contenente un fal-
cone incappucciato.
Dreissig osservò gli uccelli e disse all'uomo:
— Domani la nostra gara sarà davvero appassionante. Il mate-
riale umano non manca, e ci divertiremo.
Ben Mussaf fece un cenno distratto di assenso. Non mi parve
molto interessato alla gara, mentre io, che avevo già indovinato con
un brivido quel che aspettava me e Lisa, cercavo di riordinare le
idee alla svelta per escogitare il sistema di sfuggire alla parte di
capro espiatorio che mi avevano destinato. L'arabo invece non mutò
espressione. Aveva due occhi freddi e penetranti che ricordavano
quelli delle aquile. Intuii che Ben Mussaf non era contento che un
paio di estranei fossero riusciti ad introdursi nel nascondiglio così
sicuro di Dreissig.
— Ed erano soltanto in due? — domandò a Herr Trenta con
un'occhiata a trapano.
— Sì, abbiamo esplorato ovunque, dentro e fuori — rispose
Dreissig con un'alzata di spalle. — L'americano da qualche giorno
s'era messo a darci noia, era diventato una vera spina nel fianco. E'
un famoso agente dell'AXE, un'organizzazione di criminali statuni-
tensi. Killer semi-legalizzati, protetti dal loro governo, che vanno in
giro a romper le scatole a mezzo mondo travestiti da divini giusti-
zieri.
Ben Mussaf grugnì e Dreissig ordinò alle guardie di portarci
giù. Mentre ci trascinavano via, udii che l'arabo diceva al suo anfi-
trione che i suoi uomini non avrebbero abbandonato le chiatte con il
carico d'oro sino a quando questo non fosse stato messo al sicuro
nei relativi depositi.
Lisa ed io tornammo nella camera delle torture. Ci incatena-
rono agli anelli della parete, poi se ne andarono. Volsi il capo per
guardare la mia compagna e tentai di fare lo spiritoso.
97
— Sapete una cosa? Mi sa che oggi zia Anna non andrà a far
compere.
Lei si morse un labbro. Gli occhi le si erano incupiti per la
paura.
— Cosa ci faranno?
— Non lo so — risposi, cercando di non pensare a quei dan-
nati uccellacci. — Ma sono certo che non hanno in mente di farci
divertire, queste brave persone. Avrete capito anche voi che non
sono proprio dei gentlemen. Vi conviene dormirci su.
— Dormire? — strillò, guardandomi come se fossi impazzito.
— State scherzando. Per quanto io non veda cosa ci sia da scherza-
re...
— Non è difficile dormire — risposi. — Guardate me, e
vedrete.
Chiusi gli occhi, appoggiai la guancia alla pietra viscida e
fredda della parete, e un momento dopo mi addormentai. La lunga
esperienza professionale mi aveva insegnato da un pezzo ad ap-
profittare delle occasioni al massimo. C'era un tempo da dedicare al
sonno e un tempo da dedicare alle preoccupazioni. Entrambi
avevano la loro importanza, però era sempre più opportuno scinder-
le.
Mi svegliai all'alba e dovetti sorridere. Lisa stava ancora dor-
mendo al mio fianco. Come avevo previsto, la stanchezza e le
emozioni avevano finito col prendere il sopravvento. Meno male; di
tempo per la paura ne avevamo anche troppo. La mattinata trascorse
senza che alcuno si facesse vivo. Era quasi mezzogiorno quando
Lisa si svegliò. Il terzo prigioniero, ancora nudo e incatenato, gia-
ceva sul pavimento. Ogni tanto si agitava un po', ma poi tornava
subito immobile e silenzioso.
Lisa mi diede il buon giorno con voce impastata, poi se ne
stette zitta anche lei. Nei suoi occhi si leggeva la paura. Ogni tanto
mi lanciava un'occhiata e cercava di ritrovare la sua compostezza e
la padronanza di sé, ma non si poteva dire che ci riuscisse molto
bene.
Mezzogiorno passò. Venne il pomeriggio, e continuammo a
rimanere soli. Incominciavo a sperare che qualcosa fosse andata di
traverso quando udii il passo di qualcuno che si avvicinava. Entrò
98
un gruppetto di camicie bianche. Prima staccarono Lisa dagli anelli,
poi me. Infine sciolsero dalle catene anche l'altro che giaceva nudo
sul pavimento. Ci sospinsero su per le scale e ci fecero uscire all'a-
perto, sotto il sole del pomeriggio inoltrato.
Un'altra mezza dozzina di lanzichenecchi si unì alla compa-
gnia quando ci fecero salire su per la collina. Attraversammo un
bosco, e infine ci ritrovammo su un magnifico prato vellutato, leg-
germente in pendenza. Vidi subito un gruppo di persone raccolto
sulla sommità del pendio. C'era pure Dreissig vestito da cavalleriz-
zo e Ben Mussaf nel solito sudario di lusso. Con loro c'erano tre
arabi, ciascuno con un'aquila dorata sull'avambraccio. Cominciai a
sentirmi molto a disagio. Sapevo benissimo che non ci avevano
condotto lassù per farci ammirare una gara amichevole di volo tra le
aquile germaniche e quelle dello sceicco. Non tardai ad aver con-
ferma di quel che paventavo.
— Scusate se vi abbiamo fatto attendere — ci disse Dreissig
con un sorriso sadicamente untuoso. — Ma Sua Eccellenza ed io
abbiamo cambiato il programma e ci siamo accordati sui nostri pia-
ni oggi, anziché stasera.
— Immagino che avrete avuto il vostro bel daffare a contare i
lingotti — dissi con voce tranquilla. Dreissig mi rivolse il suo sorri-
so da fanciullone.
— No, quello è un lavoretto che faremo stasera, purtroppo. Le
chiatte son giunte con un certo ritardo, e poiché le operazioni di sca-
rico sono sempre lunghe, abbiamo deciso di rimandarle a stasera,
così eviteremo di venire osservati dal traffico fluviale. Per certe
cose è sempre preferibile la privacy, come dite voi americani.
— Temo però che voi non sarete qui ad assistere allo scarico
delle chiatte — mi disse Ben Mussaf tendendo il braccio, mentre
uno dei suoi uomini trasferiva il volatile sulla sua manica. — Questi
splendidi cacciatori hanno avuto un successo incredibile durante un
esperimento molto interessante. Vedete, li abbiamo addestrati ad
uno sport tutto speciale: la caccia all'uomo anziché agli uccelli.
Quando ho suscitato nel signor Dreissig la stessa passione che ho io
per questi rapaci, è stato appunto lui a suggerirmi l'idea di usarli
come bombardieri in picchiata. Un'ottima variante davvero. L'aquila
dorata infatti è abilissima nel rincorrere e sbranare a colpi di becco e
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di artigli chiunque stia fuggendo. Un'innovazione fantastica per i
prigionieri che scappano. Questi uccelli sono dei cacciatori nati, e
degli autentici killers. A volte aggrediscono da soli qualunque cosa
che si muova soltanto. Non si tratta quindi di sviluppare un istinto,
quanto di specializzarlo.
— Dato che siamo degli sportivi — intervenne Dreissig — vi
daremo l'opportunità di cavarvela, se siete abbastanza svelti. —
Puntò il dito verso un boschetto in fondo al prato, a 500 metri circa.
— Se arriverete vivi a quegli alberi vi verrà concessa la libertà.
Abbozzai una smorfia. Avendo veduto falconi ed aquile all'o-
pera, sapevo benissimo che razza di opportunità ci venivano offerte.
Ben Mussaf alzò il braccio e l'aquila incappucciata si agitò in
attesa dell'inizio del divertimento. L'uomo, ancora nudo come un
verme, venne sospinto in avanti. Vidi gli occhi di Lisa riempirsi di
pietà e di orrore.
— Corri, porco! — gridò Dreissig dandogli un urtone nella
schiena. L'uomo si volse, guardò l'uccellaccio con espressione terro-
rizzata, poi cominciò a correre con quanta forza aveva nelle gambe.
— Togli il cappuccio — ordinò Ben Mussaf al suo aiutante,
che si affrettò ad eseguire.
Ben Mussaf sollevò un poco il braccio, e subito l'aquila si
librò verso il cielo.
Sarebbe stato uno spettacolo interessante, se non avesse ri-
guardato così da vicino le nostre vite.
Seguii mio malgrado con lo sguardo il volo, vidi che l'uccello
disegnava un semicerchio nell'aria, poi cominciava a calar giù in
picchiata. Quel pover'uomo era a metà strada e continuava a correre
a perdifiato. Lisa mi strinse un braccio e mormorò:
— Forse ce la fa!
La vidi così eccitata e piena di speranza che non ebbi il cuore
di deluderla. Tanto avrebbe visto da sé, purtroppo. Era solo questio-
ne di secondi.
Continuai a fissare l'uccello, come ipnotizzato. Ora piombava
giù con la rapidità di un proiettile. Man mano che le grandi ali dora-
te si avvicinavano all'uomo in corsa, si allargavano orizzontali, e le
zampacce si protendevano in avanti con tutti gli artigli in mostra.
Vidi quei dannatissimi artigli conficcarsi nella nuca dell'uomo, vidi
100
il fiotto di sangue che ne zampillò. Il suo grido di terrore giunse
sino a noi. Il disgraziato si portò le mani al capo, inciampò, stra-
mazzò. Riuscì però ad alzarsi e tentò ancora di correre, sospinto
dalla paura e dall'istinto di conservazione. Ma l'aquila tornò alla
carica, spietata. Gli conficcò gli artigli nel braccio poi si risollevò e
lo trascinò a mezz'aria per un tratto. Lo lasciò ricadere e si tuffò di
nuovo, lacerandogli la faccia e il collo con gli unghioni e col becco.
Le urla disperate dell'uomo giunsero fino a noi. Lo vidi cadere
un'altra volta. L'aquila tese le ali, fece un gran giro attorno, poi calò
su di lui e ricominciò a lavorare con il becco, strappandogli la carne
dall'addome a brandelli. Lo spettacolo era orripilante, dava la nau-
sea. L'aquila, ormai frenetica nella sua sete di sangue, continuò
l'opera di distruzione, spietata. L'uomo era morto, ormai, era ridotto
ad una massa inerte di carne maciullata, ma l'uccellaccio procedeva
nel suo inutile massacro. Non so per quanto tempo sarebbe andato
avanti. Distolsi gli occhi perché ne avevo abbastanza e ormai sape-
vo tutto sulle "opportunità" che ci avrebbero dato di salvarci.
Infine Ben Mussaf soffiò in un fischietto acutissimo. L'aquila
si fermò, guardò dalla nostra parte, poi si risollevò in volo e tornò
indietro. Si appollaiò di nuovo sull'avambraccio dell'arabo, spor-
candoglielo tutto di sangue.
Guardai Lisa. Si era coperta il volto con le mani. L'assistente
si affrettò a rimettere il cappuccio all'uccello e a portarlo via.
— Splendida esibizione — disse Dreissig in tono entusiasta.
— Adesso tocca alla ragazza. Levatele i vestiti.
Lisa non disse nulla. Ammirai la sua forza d'animo. Non vole-
va dar soddisfazione al tedesco, non intendeva mostrarsi terrorizza-
ta. Ma lo era quanto me. Sapevo che non aveva maggiori possibilità
di quel pover'uomo. Il suo splendido corpo tra breve sarebbe stato
preda sanguinante di un'altra aquila feroce. La sola cosa da farsi
sarebbe stato accoppare quelle bestiacce, ma come?
Mentre quel pensiero mi attraversava il cervello come un ful-
mine, mi dissi che forse un filo di speranza esisteva. Non avrei
potuto far fuori le aquile, però... si poteva far sì che si distruggesse-
ro tra loro. Infatti le tenevano incappucciate sino all'ultimo momen-
to ad evitare che si avventassero una contro l'altra.
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Lisa era nuda, adesso. Dreissig, Ben Mussaf e gli altri la guar-
darono e ammirarono la sua bellezza.
— E' un peccato, però — disse l'arabo con un guizzo di con-
cupiscenza negli occhi.
— Sì, ma è giusto che sia lei a pagare per la morte della nostra
Helga — gli spiegò Dreissig. — Occhio per occhio, dente per dente,
Eccellenza.
Nessuno mi stava osservando, ed io indietreggiai piano piano
verso gli uomini che tenevano le altre due aquile. Guardai Dreissig
e vidi che afferrava Lisa e le dava un urtone.
— Corri! — gridò. — Corri, piccola cagna!
Lisa filò via come una saetta. La sua splendida figura che vo-
lava nuda su quello sfondo smeraldino del prato evocava cose ben
diverse dalla cruda realtà che avevano preparato per lei.
L'arabo tese il braccio, ma io scattai, approfittando del fatto
che tutti gli occhi erano fissi su Lisa. Con una sola mossa rapidissi-
ma strappai il cappuccio da tutte e due le aquile, e lanciai un grido.
I due rapaci si librarono verso il cielo simultaneamente, dise-
gnarono il solito semicerchio, ampio, poi si scagliarono uno contro
l'altro. Vi fu una vera e propria collisione a mezz'aria, accompagna-
ta da una pioggia di piume e di sangue. Poi si staccarono per un
attimo e tornarono all'attacco con più violenza di prima, beccandosi
e artigliandosi a vicenda. Furiosi, si sollevarono e caddero, si risol-
levarono e ricaddero, fecero una breve sosta poi ricominciarono a
strapparsi piume e carne. Anche se stavolta non si trattava dell'ag-
gressione ad un uomo, la scena era selvaggia lo stesso e rivoltava.
Fu una cosa molto rapida, però. Ad un certo punto si vide una
specie di brivido violento ad una certa altezza, poi tutti e due gli uc-
celli piombarono giù. Il vincitore non era molto più vivo del vinto.
Dreissig e Ben Mussaf erano rimasti affascinati dallo spetta-
colo quanto me, ma adesso si volsero a guardarmi indignati, furenti.
Guardai verso il boschetto. Lisa era già scomparsa tra gli alberi.
— Rincorretela — ordinò Dreissig ai suoi uomini. — Riporta-
tela qui.
— E voi pretendereste di essere uno sportivo e un uomo d'o-
nore? — protestai guardandolo con disprezzo. — Le avete
promesso la libertà se avesse raggiunto quegli alberi, e lei li ha rag-
102
giunti. Se la vostra parola vale così poco, Sua Eccellenza farà bene
a non fidarsi troppo di voi. "I trattati sono solo dei pezzi di carta",
vero?
L'allusione al suo Führer lo fece impallidire di rabbia, e mi
mollò una sventola che per poco non mi girò la testa dall'altra parte.
Era forte, quel figlio d'un cane, ma se si aspettava che io subissi
passivo si illudeva. Gli allungai un pugno in pieno stomaco e lui
dovette piegarsi in due e stringersi l'addome tra le mani. Bene, ave-
vo guadagnato ancora un po' di tempo, e gli uomini non si erano
mossi per rincorrere Lisa. Quattro però si avventarono su di me e mi
immobilizzarono prima che mi venisse voglia di menar le mani
un'altra volta.
— Portatelo via — disse Ben Mussaf alle guardie, e aiutò
Dreissig a rialzarsi.
Li seguii senza far storie. Mi riportarono nel sotterraneo e mi
incatenarono di nuovo alla parete.
Un'ora dopo calò l'oscurità. Ero ancora solo. Man mano che il
tempo passava divenni un po' più ottimista. Non avevano trovato
Lisa. Forse aveva fatto in tempo a scappare. Non volevo cullarmi
troppo nell'illusione, ma col passar delle ore cominciai a tranquilliz-
zarmi. Adesso non mi restava che escogitare un sistema qualsiasi
per tagliar la corda e dare il colpo di grazia a Dreissig una volta per
tutte.
Già, ma come?
9
Ero rimasto per ore con l'orecchio teso, sperando di udire gli uomini
di Dreissig che trasferivano l'oro nelle cantine. Sapevo che avrebbe-
ro usato l'ingresso posteriore, ma le cantine non erano tanto lontane
dalla camera delle torture. Avrei udito certo qualcosa, non foss'altro
che un tramestio indicatore. Ma non sentii proprio nulla. Chiaro che
non avevano ancora incominciato. Oppure dal punto in cui mi tro-
vavo non si udiva niente. C'era un silenzio di morte in quella stanza
cavernosa.
Per questo allungai il collo, allarmato, quando mi giunse un
suono lieve di passi che si avvicinavano alla mia prigione. La torcia
103
ad acetilene ormai dava soltanto una luce debolissima perché stava
estinguendosi. Ma bastò a mettere in evidenza qualcosa di rosso.
Emisi un grugnito esasperato.
— Oh, no! Ancora voi? Ma che diavolo siete venuta a fare
qui?
— Da sola non riuscivo a cavarmela — mi rispose Lisa. —
Una pattuglia vera e propria sta circondando la proprietà attorno ai
terreni del castello. L'idea era quella di bloccarmi la fuga, così ho
pensato bene di rientrare. Forse loro non se lo aspettano. Ho biso-
gno del vostro aiuto, ed eccomi qui. Dopo tutto siete stato voi a
ficcarmi in questo pasticcio; è giusto che mi tiriate fuori.
Protestai con vigore:
— Sapete che avete una bella faccia tosta? Mi siete corsa die-
tro per spiarmi dopo che vi avevo messo in guardia e pregato di
tornare a Berlino alla svelta. Dunque è colpa vostra se vi siete fatta
beccare. Avrei dovuto infischiarmene di voi, invece di intervenire
per salvarvi dalla tortura. Se avessi potuto fare a modo mio, le cose
sarebbero andate in maniera assai diversa!
Lei sorrise.
— Un particolare tecnico di importanza minore. — Cominciò
a liberarmi i polsi dalle catene, con ammirevole perizia. — Chi ha
rapito me e la Mercedes la prima volta? Chi mi ha invitato a venir
qui? — L'aria impaurita e rassegnata non c'era più, adesso. La ra-
gazza aveva ripreso la padronanza di sé. Sospirai.
— E va bene, ma io...
— Avevo paura, ma mi sentivo anche colpevole nei vostri
confronti — ammise infine. — E quando si è nudi ci si trova in
posizione di inferiorità.
— E dove avete recuperato i vostri abiti? — le domandai,
ancora sbalordito.
— Sull'erba, dove li avevano lasciati quei bravi signori dopo il
mio forzato spogliarello. Nella confusione generale se ne sono scor-
dati, credo. Quando ho capito che non sarei riuscita a forzare il
blocco, mi sono nascosta nel bosco. Per poco non morivo di freddo.
Ad un certo punto sono tornata su e ho trovato la mia roba. Ho infi-
lato solo il gonfino e i pantaloni.
104
Non c'era bisogno di spiegarmelo. Avevo già notato che la
maglia di lana morbida aderiva in modo rivelatore ai suoi seni, met-
tendoli bene in evidenza. In fondo quei seni avevano contribuito a
spronarmi al salvataggio della bella prigioniera in un sinistro castel-
lo medioevale. M'ero comportato come un autentico cavaliere
antico. Ed ora desideravo più che mai uscire dallo Schloss con lei,
vivo e in buone condizioni.
Mi stiracchiai per favorire la circolazione, e lei mi spiegò:
— Sono passata nei pressi dell'imbarcadero e ho visto che non
hanno ancora cominciato a scaricare l'oro. Gli uomini di Ben Mus-
saf sono di guardia sulle chiatte.
— Quanti? — le domandai. — O il particolare vi è parso
troppo insignificante?
Mi rimbeccò subito:
— Ne ho contato sei. Le chiatte sono due, con tre sentinelle
per ciascuna.
— Brava ragazza. Se continuate a comportarvi con tanta dili-
genza, prima o poi faremo di voi una spia migliore di Mata Hari.
— Vi rendete conto che non so ancora niente di questa male-
detta faccenda? — disse seguendomi su per le scale. — Mi sono
fatta un'idea grazie al poco che ho raccolto qua e là, ma voi non mi
avete spiegato proprio nulla. Vi sembra giusto, dopo le avventure...
diciamo insolite, che abbiamo avuto?
— Bambina mia, vi prometto che vi farò un bel quadro della
situazione se e quando riusciremo a filar via da questo posto incan-
tevole. E se non ne usciremo vivi, la vostra curiosità non avrà più
bisogno di essere soddisfatta.
Quella pensata sulle due aquile che mi aveva permesso di sal-
var la pelle o di procrastinare l'esecuzione della condanna, mi aveva
pure indotto ad affezionarmi all'idea di combattere Dreissig con le
sue stesse armi. Se tutto andava bene, i suoi trucchetti gli si sarebbe-
ro rivoltati contro ed io ne avrei tratto delle soddisfazioni egregie.
Dunque le chiatte cariche d'oro stavano ancora attraccate all'imbar-
cadero. Certo il prezioso metallo era camuffato ed era passato sotto
altra veste. L'importazione dell'oro non è libera, e se l'avevano con-
trabbandato in Germania avevano trovato qualche sistema. Un
progetto mi stava spuntando in testa. Qualora fossi riuscito ad effet-
105
tuarlo, non solo avrei dato un colpo duro a quei bastardi, ma avrei
reso impossibile anche il recupero dei lingottoni!
Mi fermai un attimo quando arrivai nella immensa anticamera
del castello, e rimossi dal muro una pesante ascia da guerra, ta-
glientissima. La cosiddetta "stella del mattino" in fondo mi aveva
servito, non foss'altro che a ritardare la cattura e a metter fuori com-
battimento un po' di uomini, il che non era poco. D'accordo,
Dreissig ne aveva parecchi, ma grazie a me le file si erano assotti-
gliate mica male. Ora mi occorreva qualcosa di quieto ed efficiente.
L'ascia — che dopotutto era pure il simbolo glorioso della mia a-
genzia — mi sarebbe stata utile. Dopo l'exploit del mattino con la
palla chiodata cominciavo a nutrire un certo rispetto e una certa
simpatia per questi vecchi attrezzi da guerra.
Tutto sommato mi dissi che era meglio uscire dalla porta prin-
cipale. Quelle posteriori erano guardate a vista, come avevo
constatato, dagli uomini che aspettavano di trasferire l'oro in canti-
na. Dato che il trapasso non era ancora avvenuto, quelli dovevano
essere ancora là. Sul fronte anteriore invece c'era soltanto una senti-
nella. Le scivolai alle spalle quieto quieto e mollai un bel colpo
d'ascia. Fu una cosa rapida e silenziosa. Buttai la mia vittima nel
fossato, ma prima la liberai di una comoda spada che teneva infilata
alla cintola.
Mentre filavamo giù verso l'imbarcadero e il molo d'attracco,
mi dissi ancora una volta che grazie a me le forze di Dreissig si era-
no ridotte in modo notevole. Mi sentivo sempre orgoglioso del
lavoro ben fatto. Adesso che aveva pochi uomini, Mister Trenta era
costretto ad usarli con una certa economia. Un gruppetto stava di
pattuglia attorno alla proprietà nella speranza di catturare Lisa, e per
il momento non mi avrebbe dato noia. Un altro gruppetto era stato
eliminato dal sottoscritto e di fastidi non ne avrebbe procurato mai
più. Inoltre quella brava gente era convinta che Lisa fosse riuscita a
fuggire e che io me ne stessi ancora incatenato alla parete. Non era-
no dunque all'erta. Io però calai giù con la massima cautela. Sentivo
di avere il successo a portata di mano e non volevo buttare tutto
all'aria con qualche imprudenza proprio ora.
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Le chiatte erano attraccate al molo. Si vedevano a una certa
distanza dondolare dolcemente sul fiume. Sogghignai quando le
mostrai a Lisa e dissi:
— Ecco, è proprio "L'oro del Reno"!
Vidi solo quattro arabi che passeggiavano su e giù. Forse gli
altri due erano andati a coricarsi da qualche parte.
— Adesso strisciamo sullo stomaco — sussurrai a Lisa. —
Prima di lanciarci all'attacco dobbiamo portarci il più vicino possi-
bile. Meno male che non c'è la luna.
Procedemmo silenziosi come serpi, adagio adagio, un centi-
metro alla volta. Quando arrivammo a pochi metri dall'imbarcadero
le tesi l'ascia.
— Con questa dovete tagliare le gomene che legano le chiatte
alla bitta d'ormeggio. Non guardate quel che farò io. Cercate solo di
recidere la corda e di mettere in libertà le due imbarcazioni.
Aspettai che l'arabo più vicino mi voltasse le spalle per diri-
gersi verso prua, e feci un balzo. Impugnavo la spada che avevo
portato via alla sentinella in camicia bianca. Non appena i miei tal-
loni toccarono il legno della chiatta, mi avventai sull'uomo e riuscii
ad abbatterlo senza far chiasso. Rimase là sul ponte, immobile. Il
secondo arabo si volse, mi vide, fece per reagire in qualche modo
ma non gliene lasciai il tempo. La mia lama fece un volo e andò a
conficcarsi nel petto. Lui barcollò, cercò di sfilarsela dalle carni con
tutte e due le mani, ma non vi riuscì. Lo afferrai prima che precipi-
tasse, lo adagiai sul ponte e recuperai la spada che mi serviva
ancora.
Il terzo, come avevo immaginato, dormiva sodo sulla traversa
di poppa. Non si svegliò neppure, ed io feci in modo che non si sve-
gliasse più.
Mi pervenne la eco dei colpi d'ascia che Lisa sferrava alla
gomena robusta, e sentii infine che la chiatta cominciava a muover-
si, quando l'ultimo filamento si spezzò.
Anche i tre arabi dell'altra imbarcazione avevano sentito e s'e-
rano voltati a guardare. Lanciai la spada con la massima cura. Non è
facile un colpo del genere da lontano, ed io non ero un esperto. Tut-
tavia ce la misi tutta e riuscii a cogliere uno degli arabi in pieno
petto. Lo vidi cadere in avanti. Gli altri due preferirono non correre
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troppi rischi. Si tuffarono nel fiume, poi scesero a riva e filarono a
tutta birra su per il pendio, in direzione del castello. Non feci nulla
per fermarli. Balzai giù dalla chiatta proprio mentre Lisa dava l'ul-
timo colpo all'altra gomena. Subito la vidi staccarsi dal molo e fare
un mezzo giro su sé stessa.
Lisa recise la prima corda dell'altra chiatta. La raggiunsi, le
tolsi l'ascia di mano e feci un taglio netto e rabbioso alla seconda,
che si spezzò subito.
— Esibizionista! — commentò.
Sorrisi, e guardammo insieme l'Oro del Reno che si allontana-
va quieto quieto sulle acque placide.
— E adesso cosa succederà? — mi domandò Lisa.
— Verranno trascinate dalla corrente per un bel po': ad un cer-
to punto inciamperanno in qualche ostacolo, andranno a sbattere in
qualche ansa, o finiranno contro un altro molo, o addosso a una
nave, magari. Ma potete star certa che qualche bravo Burgher chia-
merà la polizia fluviale. Quando il cargo verrà esaminato ci sarà
davvero una bella sorpresina. Si troveranno in possesso di cinque o
sei milioni di marchi in lingotti d'oro. E la parte più divertente è che
né Dreissig né Ben Mussaf oseranno reclamarlo. Dovrebbero af-
frontare troppe domande imbarazzanti, e non hanno certo voglia di
farsi denunciare e arrestare per contrabbando.
Lisa sogghignò.
— Perfetto!
— Adesso debbo tornare al castello, perché ho un lavoro da
completare e non mi piace lasciar le cose in sospeso.
Manco a dirlo, Lisa volle seguirmi. Finii col trascinarmela
dietro perché tutto sommato non mi fidavo troppo a lasciarla sola,
con tutti gli uomini in giro che la stavano cercando.
Lo seppi solo dopo, ma frattanto nel vecchio Schloss la situa-
zione aveva già cominciato a precipitare. I due arabi della chiatta si
erano precipitati da Ben Mussaf e gli avevano raccontato l'accaduto.
Subito lo sceicco era andato a cercare Dreissig con la bava alla boc-
ca.
— Maledetto pasticcione! — aveva gridato al Profeta. — Non
siete che un incompetente, e basta un nulla... Vi porto qui dei milio-
ni in oro, e li gettate via! Come avete permesso che quei... Si tratta
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solo di due agenti, un uomo e una ragazza. Eppure sono riusciti a
buttare all'aria tutto!
— L'uomo è una delle spie più pericolose d'America — aveva
ribattuto Dreissig nel tentativo inutile di giustificarsi.
— Ma è pur sempre un uomo solo! — aveva tuonato Ben
Mussaf furibondo. — E voi pretendereste di capeggiare una campa-
gna contro Israele? E pretendereste di unire il mondo arabo sotto la
vostra guida illuminata? Pretendereste di passare alla storia come un
genio politico e militare? Dopo ciò che è accaduto non lo ritengo
possibile, ormai. Se è così che dirigete le operazioni in casa vostra,
non siete proprio il tipo adatto a portare alla vittoria contro gli ebrei
la mia gente !
— Non avete il diritto di parlarmi in questo modo — s'era
messo a strillare Dreissig.
— Invece ho il diritto di far quel che mi pare, e la prima cosa
che farò sarà quella di ritirarmi subito dall'avventura che mi avete
prospettato. Non ho più fiducia nella vostra abilità.
— Non crediate che vi permetta di ritirarvi adesso — aveva
sibilato Dreissig con voce minacciosa. — Di oro ne avete ancora, e
tanto.
— Certo, e lo terrò da conto per qualcosa di più serio. Voi sie-
te un buffone !
A questo punto Dreissig aveva chiamato un paio di guardie in
camicia bianca e aveva ordinato:
— Arrestatelo. Portatelo nella torre e chiudetelo dentro sino a
nuovo ordine.
— Siete anche pazzo! — s'era messo a strillare Ben Mussaf
mentre le guardie lo trascinavano via.
— D'accordo, e voi siete il mio ostaggio. Che ve ne pare? Vi
terrò qui prigioniero sino a quando non avrò ricevuto l'oro che mi
serve. Avete dei figli al vostro paese, no? Pagheranno. E pagherà
anche la vostra gente.
Quando Lisa ed io arrivammo al castello non sapevamo nulla
di ciò che era accaduto tra i due ex-complici che adesso erano di-
ventati nemici. Penetrammo attraverso il fossato asciutto e trovam-
mo una porta priva di sentinelle. Ci rifugiammo ancora una volta in
cantina, e tendemmo l'orecchio. La notizia si era già diffusa tra gli
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uomini e veniva commentata a gran voce. A noi non rimaneva che
ascoltare, e ascoltammo.
— E' scoppiato qualche guaio nei giardini dell'Eden — com-
mentai. Lisa ridacchiò, e insieme ci avventurammo lungo un
corridoio. Volevo balzare addosso a Dreissig, però intendevo mette-
re prima Lisa in un posto sicuro. Aveva già corso abbastanza rischi.
Tutto andò di traverso per colpa di un topo, un autentico topo
a quattro zampe. Era grosso, grigio, con una faccia da carogna. Ci
passò davanti tranquillo. E Lisa ebbe la tipica reazione di tutte le
femmine che vedono un roditore: strillò. Poi si rese conto subito di
averla fatta grossa e ammutolì di colpo. Ma ormai era troppo tardi.
Il suo strillo acuto echeggiò per tutto il castello.
Ben presto udii i passi che si precipitavano giù. Fui costretto
per una volta tanto a scordarmi della cavalleria. Se ci avessero riac-
ciuffato tutti e due, non ci sarebbe più stata alcuna speranza, né per
me né per lei. Tra i due mali mi toccava quindi scegliere il minore.
Abbandonai la mia compagna al suo destino, ripromettendomi di li-
berarla più tardi – se tutto andava come speravo – e mi arrampicai
sulla finestrella con un balzo acrobatico, passando dall'altra parte.
Udii gli uomini che arrivavano, acciuffavano Lisa e se la portavano
via. Ero rimasto infatti appeso con le mani al telaio di ferro. Aspet-
tai un po', e quando le dita cominciarono a intorpidirsi mi calai giù.
Volevo fare una chiacchieratina amichevole con Dreissig. Il
fatto che avesse avuto la faccia tosta di catturare Ben Mussaf e di
far uccidere i suoi due aiutanti arabi mi provava una volta di più
quanto fosse pericoloso quell'individuo. Non solo pericoloso per la
sua sadica crudeltà, ma per la sua instabilità mentale. Sì, era matto
da legare e andava messo fuori combattimento al più presto. Di Lisa
mi sarei occupato dopo. Prima di farle del male avrebbero conferito
con il capo, comunque.
Andò a finire che trovai l'uno e l'altra nello stesso tempo.
Stavo percorrendo il corridoio del primo piano che conduceva
allo studio di Dreissig, e mi trovavo vicino alla porta chiusa, quando
udii il grido di Lisa. Entrai senza bussare e vidi che il tedesco aveva
rovesciato la ragazza sul divano e le stava addosso. Le aveva strap-
pato per l'ennesima volta i vestiti e la schiacciava con tutto il suo
peso. Una sola delle sue zampacce bastava a tenerle imprigionati i
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polsi dietro la schiena. Come piombai dentro lui si volse di scatto,
poi balzò su e con uno strattone afferrò Lisa e se la mise davanti al
corpo, servendosene come scudo.
Scivolò dietro lo scrittoio camminando all'indietro, sempre
proteggendosi con la ragazza. Afferrò un tagliacarte e tornò verso il
centro della stanza. Mi aspettavo quella mossa e mi ci preparai.
Dreissig infatti mi gettò addosso Lisa, convinto che l'avrei agguan-
tata trovandomi in posizione di svantaggio. Invece io guizzai da una
parte, presi Lisa per un braccio e basandomi sul principio della for-
za centrifuga la feci piroettare sino al divano. Il tuffo che Dreissig
eseguì con il tagliacarte in mano mi trovò pronto. Mi abbassai ful-
mineo, poi gli afferrai il polso e glielo torsi. Strillò come un'aquila,
mollò l'arma e andò a sbattere contro la parete. Rimase stordito solo
per un attimo, poi si rialzò per avventarmisi contro. Lo aspettavo, e
gli diedi il benvenuto con un diretto che lo spedì nel corridoio. Gli
corsi dietro senza perder tempo. Ancora una volta lo vidi rimbalzare
come una palla di gomma e indietreggiare piano piano verso una
parete tutta decorata di attrezzi medioevali come l'atrio di sotto. In-
dovinai quel che stava per fare e mi tuffai, abbrancandolo per le
ginocchia. Lui mi riempì di pugni la scatola cranica e mi fece vede-
re stelle e fuochi d'artificio.
Si liberò dalla mia stretta, mentre io cadevo a faccia in giù sui
lastroni di pietra. Sentii che staccava dalla parete qualcosa e trovai
la forza di rotolare su me stesso. Appena in tempo. Si era imposses-
sato di una lunga alabarda e aveva cercato di colpirmi, ma era
riuscito soltanto a scalfire il pavimento. Mi rimisi in piedi ed evitai
ancora per un pelo la lama che mi veniva tirata addosso. Lui se la
infilò sotto il braccio, aspettando l'occasione buona di beccarmi.
Arretrai verso la parete per dargli l'impressione di avermi messo
con le spalle al muro.
Caricò come un toro infuriato e io feci un guizzo. Riuscì a
lacerarmi un pezzo di camicia senza provocare altri danni. Stavolta
però fui lesto ad agguantare l'alabarda quando rimbalzò sui lastroni.
La torsi e la strappai di mano al mio avversario. Era troppo scomo-
da da manovrare, lunga e pesante. La lasciai cadere e mi buttai
addosso al bestione.
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Aveva il volto contorto e digrignava i denti proprio come un
animale, adesso. Mi allungò un destro ma lo parai con un saltello; a
mia volta tentai di mollargli un sinistro ma vidi che sapeva il fatto
suo come pugile. Ma non ero lì per sollazzarmi con un match pro-
lungato. Volevo far presto a stenderlo perché sapevo che non c'era
tempo da perdere.
Mentre picchiavo e paravo mi domandai perché i suoi bravi
non erano ancora accorsi. Dopotutto la battaglia si svolgeva in cor-
ridoio, e avrebbero dovuto sentirci. Approfittai di un attimo in cui
aveva la guardia abbassata per sparargli un sinistro fulmineo nelle
costole. Lo vidi barcollare con una smorfia e girarsi da un lato. Gli
afferrai il braccio che stava per scattare ed evitai così un pugno
massacrante. Continuai a torcergli il sinistro e a martellarlo senza
misericordia con l'altra mano. Infine crollò sulle pietre e rimase
immobile.
Me ne stetti un po' lì a guardarlo, poi gli girai il capo a destra
e a sinistra. Niente, sembrava morto. Non aveva nulla di rotto, in
apparenza. Era dunque svenuto.
Mi volsi perché avevo udito un fruscio, e vidi Lisa sulla porta
dello studio. Ancora una volta si era rimessa pantaloni e golfino
rosso. Stava diventando davvero una spogliarellista esperta e velo-
ce. Guardandola notai che spalancava gli occhi e la bocca per
mettermi in guardia. Capii al volo e feci uno scarto senza neppure
voltarmi. Evitai così di stretta misura il pugno che Dreissig mi stava
lanciando. Evitai il pugno ma non il peso della sua persona, che mi
venne addosso trascinata dalla forza di gravità. Caddi all'indietro e
cercai di divincolarmi per atterrare almeno sul dorso. Quel porco
era tutt'altro che svenuto. Aveva finto per cogliermi di sorpresa, e se
non fosse stato per il muto avvertimento di Lisa, mi sarei trovato a
mal partito. Mi si avventò contro e ancora una volta mi difesi con
un calcio secco allo stomaco. Mi pervenne lo scricchiolio delle sue
costole spezzate, quando il mio piede le raggiunse. Si rovesciò
all'indietro. Mi alzai di scatto per avere il sopravvento. Non gli
avrei più permesso di prendermi per il bavero con le sue finte. Gli
sferrai un diretto così potente da farlo piroettare su se stesso. Cercò
di coprirsi, ma fui più svelto di lui e gli allungai un sinistro, poi
subito un altro diretto alla mascella. Anche stavolta sentii l'osso che
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si frantumava. Si abbatté all'indietro ancora e cadde con tutto il suo
peso. Rimase là con la faccia tutta contratta dal dolore, e vidi che
alcune gocce di sangue gli uscivano dalle labbra.
Stupito mi avvicinai, lo afferrai per la camicia e lo sollevai.
L'alabarda si sollevò insieme al suo corpo e capii cos'era accaduto.
Piombando proprio con la schiena sulla lama tagliente dell'arma,
aveva finito con l'infilzarsi da solo. Heinrich Dreissig era morto. La
Fenice del nazismo era morta con lui, e al mondo era stata rispar-
miata l'umiliazione di farsi governare da un pazzo di nome Trenta.
Mi stavo ancora domandando come mai nessuno dei fedeli del
fanatico si era fatto vedere per dare una mano al nuovo Führer,
quando mi pervenne alle nari un tremendo puzzo di bruciato. Guar-
dai Lisa. Aveva gli occhi spalancati. Anche lei si era accorta dell'o-
dore e si stava allarmando. In fondo al corridoio, dove c'era la scala,
qualche spirale di fumo cominciava già ad arrivare dal piano infe-
riore. Corsi là e mi affacciai a guardar giù. Vidi subito le lingue di
fuoco e mi accorsi che tavoli, sedie ed altre suppellettili erano state
ammucchiate insieme in un canto per alimentare le fiamme. Anche i
vecchi tendaggi e gli stendardi appesi al muro erano delle prede
facili. Con i mille spifferi che soffiavano da ogni parte, in quella co-
struzione antica e piena di correnti d'aria, l'incendio avrebbe fatto
anche troppo presto a svilupparsi, Tra breve il fuoco avrebbe rag-
giunto ogni angolo.
Ora compresi perché non era apparso nemmeno uno degli
uomini di Dreissig. Evidente che il capo aveva ordinato loro di dar
fuoco al castello.
Possibile che non mi fossi sbagliato quando mi aveva sfiorato
il sospetto – subito messo da parte – che il fanatico imitasse il suo
idolo anche nel finale alla Götterdämmerung? Ci ripensai, ma poi
scossi il capo. No, c'erano troppe stonature in quella teoria. E il con-
trosenso più lampante era quello di aver fatto rinchiudere lo sceicco
Ben Mussaf allo scopo di tenerlo come ostaggio per farsi mandare
altro oro. Non era possibile che subito dopo decidesse di mandare
all'aria tutto in una gloriosa fiammata.
Tornai da Lisa e le domandai:
— Ha detto nulla, Dreissig, quando vi ha portato qui? Nulla di
significativo?
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— Be', ha affermato che intendeva violentarmi prima di an-
darsene.
— Prima di andarsene, eh? — ripetei. — Ciò dimostrerebbe
che non aveva la minima intenzione di fare la morte del bonzo. Mi
pareva bene. Ha detto altro?
— Quando mi è... quando stava...
— Coraggio, lasciamo perdere la pudicizia! E' importante! —
gridai.
— Quando mi si è buttato addosso per... insomma, per fare ciò
che intendeva fare, ha borbottato che gli sarebbe piaciuto portarmi
via con sé, ma che gli sarei stata d'impaccio. Ha anche soggiunto
che aveva già abbastanza guai con l'arabo e con le aquile.
Adesso cominciavo a scorgere qualche spiraglio di luce. Chia-
ro che Dreissig si era reso conto di quanto fosse diventato poco
sicuro il vecchio Schloss ormai. Troppi gli sbagli, troppe le perdite
umane tra i suoi uomini, troppi i rischi di venir acciuffato prima o
poi dai fedeli di Ben Mussaf. Così aveva deciso di chiudere il capi-
tolo castello con un bell'incendio e di farsi credere morto tra le
rovine. Invece aveva ben altro in mente. In realtà intendeva scappa-
re con il suo ostaggio, tenerselo ben stretto e iniziare l'operazione
ricatto da qualche altra parte.
Lisa cominciò a tossire, e sentii anch'io un certo prurito in go-
la. Il fumo stava diventando insopportabile e ci soffocava. E se
tardavamo un altro poco a tagliare la corda, tra breve le cose sareb-
bero peggiorate ancora. Non c'era alcuna speranza che l'incendio si
spegnesse da solo. Se Dreissig aveva deciso di fuggire, certo s'era
già preparato una via d'uscita in anticipo. Non era tipo da abbando-
narsi al caso.
Risospinsi Lisa nello studio e le raccomandai:
— State qui e tenete la porta chiusa. Vado a prendere Ben
Mussaf.
Mi legai un fazzoletto attorno al viso e salii le scale avvilup-
pate nel fumo. Era molto denso, e sentii i polmoni che minacciava-
no di scoppiare. Il caldo s'era fatto intollerabile. Però man mano che
mi avvicinavo alla torre mi resi conto che lassù la situazione era
meno disperata. Ma purtroppo era solo questione di tempo.
114
Trovai la porta della cella e sbirciai dentro da una feritoia. Vi-
di Ben Mussaf e vidi la sua espressione preoccupata. Tirai il
catenaccio e gli feci segno di uscire. Schizzò subito fuori senza farsi
pregare.
— Dreissig è morto — gli comunicai. — E il castello sta per
diventare un gigantesco braciere. Se non trovo una via d'uscita, cre-
do che ci faremo arrostire a puntino. Comunque venite con me.
L'arabo assentì. Nei suoi occhi vidi un misto di gratitudine e
di apprensione. In quei pochi minuti il fumo s'era fatto più denso
anche lassù, e il caldo più soffocante. Comunque riuscii a scendere
di nuovo la scala, a percorrere il corridoio annaspando e a raggiun-
gere la porta dello studio in cui s'era rifugiata Lisa. Aveva tenuto
chiuso e là dentro il fumo era più sopportabile. Per lo meno si pote-
va respirare e parlare. Ma non c'era tempo da perdere lo stesso. Da
un momento all'altro potevamo restare in trappola anche lì, e fare
una morte tutt'altro che auspicabile.
— Dreissig intendeva tagliar la corda da qui — dissi. — Ciò
significa che quassù ci dev'essere qualche uscita segreta, e dobbia-
mo trovarla alla svelta.
— Ma può trovarsi da qualsiasi parte! — protestò Lisa. —
Come si fa a cercare, con questo fumo? E poi non sappiamo nem-
meno da che parte cominciare a...
— D'accordo, potrebbe trovarsi da qualsiasi parte — ripetei
tra un colpo di tosse e l'altro. — Ma io sono convinto che il passag-
gio non è lontano. Avete detto che lui voleva portarsi dietro Ben
Mussaf e le sue aquile, no? Ciò significa che gli uccelletti li a-
vrebbe raccolti passando... Andiamo un po' a vedere. Esiste una
vaga possibilità, e non ci rimettiamo nulla se guardiamo.
Aprii la strada e percorsi il corridoio gattoni. Non era un gran
miglioramento, ma con la faccia raso terra soffocavo un pochettino
meno. Del resto il cammino da fare era breve. E meno male, perché
anche i lastroni di pietra scorticavano la pelle, tanto bruciavano.
Immaginai che ci restassero solo pochi minuti prima che l'intero
castello divampasse, e noi con esso. Bisognava ad ogni costo trova-
re quella dannatissima uscita segreta!
Arrivai infine davanti alla porta della stanza in cui erano
custodite le aquile e constatai con sollievo che era chiusa. L'aprii e
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mi infilai all'interno. L'aria era ancora abbastanza respirabile, grazie
all'uscio massiccio di quercia. Le pareti erano ingombre di gabbie,
cassette e arnesi da caccia e da addestramento, ma ce n'era una libe-
ra. Notai che era decorata da una serie di pannelli di legno
sormontati da una mensola di pietra.
La mostrai a Lisa.
— Vediamo di tastare ogni centimetro di quei pannelli, e se
qualcosa si muove...
Ben Mussaf si unì ai nostri tentativi e anche lui pigiò la parete
con i polpastrelli.
All'improvviso, mentre Lisa stava premendo l'angolo inferiore
di uno dei pannelli, la parete scivolò di lato e mostrò un'apertura.
Ancora una volta avanzai per primo e feci strada. Mi inoltrai
per un corridoio angusto in discesa, tutto curve e gomiti aspri.
Anche là dentro le pareti scottavano e si aveva l'impressione di sof-
focare, ma più per il calore che per il fumo. E perlomeno non
c'erano fiamme. Il passaggio segreto doveva risalire al medioevo
pure lui, perché non si poteva dir comodo da percorrere. Né pote-
vamo affermare di procedere per la retta via. Infine scorsi davanti a
me una porticina. La toccai prima di aprirla, per tastarne la tempera-
tura. Per quel che ne sapevo io, avrebbe anche potuto aprirsi su una
stanza in fiamme, il che ci avrebbe riportato al punto di prima. Ri-
cordai ai miei compagni che secondo i suoi calcoli Dreissig avrebbe
dovuto filar via già da un pezzo, se non fossi intervenuto a sconvol-
gergli i piani.
Ma la porta era abbastanza fresca. L'aprii con una spinta e mi
trovai in un locale che sembrava una legnaia. Notai un altro uscio
nella parete di fronte, andai a spalancarlo, e l'aria fresca della notte
mi accarezzò le guance.
Scivolammo fuori tutti e tre con un sospirane di sollievo. Vidi
che il passaggio sotterraneo ci aveva portato lontano almeno un cen-
tinaio di metri dal castello.
Quando ci voltammo a guardare lo spettacolo, Lisa mi afferrò
la mano e la strinse. Il vecchio Schloss fiammeggiava tutto, ormai, e
il fuoco usciva dalle finestre e dai merli delle torri. Sembrava che
un esercito del medioevo lo avesse assediato a lungo, poi distrutto.
E in un certo senso era vero. Anche se ci trovavamo nell'evo mo-
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derno, un esercito di idee vecchie e superate aveva occupato quel
castello anche troppo a lungo. Idee insensate e svalutate su popoli
superiori e miti razziali, colpe ereditarie e inimicizie collettive.
— Dove avete parcheggiato la macchina? — domandai a Lisa.
Poi scoppiai a ridere e lei mi fece eco. Sembrava che fossimo usciti
da un cinema dei dintorni e ci accingessimo a tornare a casa tran-
quilli.
— Laggiù, in fondo alla strada — mi rispose infine la ragazza.
— Andiamo a vedere se c'è ancora.
Mi volsi a guardare Ben Mussaf, che mi restituì un'occhiatina
perplessa.
— Vi debbo la vita — disse — e ve ne sarò grato. Ma mi ren-
do conto di essere vostro prigioniero.
Già mi ero domandato cos'avrei fatto a questo punto, ma non
ci avevo riflettuto gran che perché non ero sicuro che me la sarei
cavata. Adesso ci ripensai. Non avevo alcun diritto legale di tratte-
nere Ben Mussaf, dato che mi trovavo anch'io in un paese straniero.
Nulla mi avrebbe impedito di denunciarlo alla polizia tedesca, però,
per cospirazione e anche complicità in omicidio. Ma non ero abba-
stanza interessato in una soluzione del genere. Evitavo come sempre
i contatti con la polizia, in base ai paterni consigli del mio capo. No,
meglio lasciarlo perdere. Se non altro gli avrei fatto vedere che noi
occidentali sapevamo essere generosi, disposti a perdonare e dimen-
ticare. Del resto la lezione cha aveva ricevuto dall'amico Dreissig
gli sarebbe bastata per un pezzo.
— Siete libero, per quanto mi riguarda — gli risposi.
Mi guardò sbalordito.
— Libero?
— Vi do un consiglio, comunque. La prossima volta cercatevi
dei compari più simpatici e delle cause più ragionevoli. Avete fre-
quentato delle brutte compagnie sinora. Ci sono tanti bravi ragazzi
ebrei che abitano vicino a voi. Perché non vi mettete a giocare con
loro, tanto per cominciare a stabilire qualche rapporto di buon vici-
nato?
Ben Mussaf non disse nulla, ma capii che aveva ricevuto il
messaggio. Si inchinò, poi girò sui tacchi e filò via.
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Presi Lisa per mano e scesi in cerca della macchina. I bravi di
Dreissig ormai si erano dispersi, sicuri di riunirsi al più presto al ca-
po. Be', avrebbero aspettato un pezzo. Comunque non valeva la
pena di cercare neanche loro. Tanto quel tipo di gente non si estin-
gueva mai, purtroppo. I fanatici e gli ignoranti hanno sempre
bisogno di un padrone da servire. Non sanno usare la libertà, perciò
non ne sono degni.
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Arrivammo a casa della zia di Lisa e trovammo sul tavolo un suo
biglietto che diceva:
"Cara Lisa, Frau Schützen mi ha invitato per
qualche giorno nella sua casa di campagna. Non
vedendoti ritornare, ho deciso di andarci. Sarò
di ritorno venerdì, nel pomeriggio.
Zia Anna."
— Siete alloggiato da qualche parte? — mi chiese la ragazza.
— Certo. Proprio in questa casa.
Mi guardò con quell'espressione mezza contegnosa e mezza
divertita, poi disse:
— A dire il vero non so se posso fidarmi.
— Niente paura — ribattei con un sorriso. — Con me vi tro-
verete al sicuro. Almeno sino a quando sarete voi a pretenderlo...
Ci pensò su, e infine acconsentì ad ospitarmi.
Si diede una stiracchiatina.
— Vado a fare una doccia. Ho bisogno di ripulirmi un po'. Mi
sembra di essere una sorta di speck affumicato.
— Mi prenoto per il secondo turno, e intanto che fate toilette
telefonerò al mio capo in USA. Non spaventatevi, addebiterò la
chiamata a lui. Non voglio mandare in rovina né voi né vostra zia.
La osservai allontanarsi verso la camera da letto, i piccoli seni
arroganti, vivi e deliziosi che si agitavano un po' sotto il golfino ros-
so. Non aveva certo bisogno di quel reggipetto abbandonato
sull'erba del praticello...
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Poi andai a sedermi accanto al telefono e feci la mia chiamata
a Hawk. Non ebbi subito la comunicazione con Washington; feci in
tempo a farmi una buona doccia anch'io e ad asciugarmi prima del
lungo trillo dell'interurbana.
Frattanto Lisa mi aveva preparato anche il letto e aveva prepa-
rato la turca per lei. Stavamo appunto discutendo sulle nostre due
reciproche sistemazioni quando arrivò la linea con Washington.
— Erano gli arabi dissidenti a finanziare Dreissig — lo infor-
mai subito. — In particolare un certo Ben Mussaf. Abdul Ben
Mussaf, sceicco pieno di grana.
— Avete detto "finanziavano"? — mi domandò il vecchio con
il solito tono asciutto. Però riuscì a sottolineare il tempo passato con
una sfumatura impercettibile ma significativa.
— Già. Adesso Dreissig è andato a raggiungere i suoi antena-
ti, e Ben Mussaf ha raccattato le sue cicche ed è tornato a casa. Oh,
a proposito, c'è un'altra cosetta. La Germania Occidentale si sta ar-
ricchendo di un milione di dollari circa in lingotti d'oro. Vanno
raminghi lungo il Reno, su due chiatte alla deriva.
— Bel colpo, Numero Tre — commentò il vecchio Hawk. —
Avete superato voi stesso e ne sono compiaciuto. Meritate un po' di
vacanza, ora. Domani riposatevi pure. Vi aspetto qui tra un paio di
giorni.
— Domani? — gli feci eco. — Per carità, non datemi troppi
vizi, mi guasterei. Tre o quattro ore sono più che sufficienti, vi assi-
curo che il mio è stato più uno svago che un lavoro, e non...
Se ne stette quieto per un po' ma decise di non redarguirmi per
il sarcasmo. Dopotutto ero tornato vincitori
— Va bene — bofonchiò infine. — Quando intendereste rien-
trare? O meglio, quando sarete sazio di lei e quindi disposto a
tornare?
— A fine settimana e mai, nell'ordine. — Non volevo che
Lisa si inorgoglisse troppo.
— D'accordo, ma a fine settimana guardate di essere qui dav-
vero. O perlomeno a casa. Può darsi che abbia qualcosa di impor-
tante per voi.
Riappese, ed io mi volsi a guardare Lisa.
119
— Sono libero sino a sabato, e poi debbo tornare a Washin-
gton — le annunciai.
— Ma da questa casa ve ne andrete venerdì — precisò la ra-
gazza. — Prima che zia Anna rientri. Non vogliamo farle venire un
colpo, eh?
S'era infilata una vestaglia azzurra, piuttosto leggera, e si in-
dovinava che sotto non portava nulla. Con un altro tipo di donna
avrei interpretato a modo mio quel deshabillé e mi sarei fatto sotto.
Ma era difficile indovinare come avrebbe reagito Lisa. Che era bella
l'ho già detto, che era desiderabile pure. La trovavo inoltre piacevo-
lissima e stimolante. Senza contare che – nonostante la rabbia del
primo momento – mi ero sentito commosso dal rischio che aveva
corso per venirmi in aiuto al castello. Alla fine si era dimostrata uti-
le davvero, e certi pericoli condivisi creano un legame che trascende
l'attrazione fisica.
Ma appunto per questo non osavo buttarmi. Mi sarebbe rin-
cresciuto sciupare tutto con un passo falso. E sentivo che con lei era
facile commettere una gaffe. Decisi così di fare il bravo ragazzo e di
non pregiudicare quel simpatico rapporto di amicizia che si era sta-
bilito tra noi.
— Voi dormirete nel letto e io starò benissimo sulla turca. Vi
prego di non fare più discussioni — conclusi in tono deciso.
Lei si alzò obbediente e si avviò verso la camera. Si volse sul-
la soglia, e la vestaglia si aprì quel tanto che bastava per mostrarmi
una delle sue splendide gambe lunghe. Ma non lo fece apposta; non
se ne accorse neppure. Io invece la rividi correre nuda su quel prato
verde. Anche i quel momento di orrore aveva la grazia di una gio-
vane gazzella.
— Buona notte, Nick — mi disse.
— Sogni d'oro, bellezza — le risposi.
Fu lei a girare l'interruttore di fianco alla porta. Rimasi al
buio, salvo il riflesso di un lampione stradale che delineava la sa-
goma dei mobili nel soggiorno.
M'ero appena coricato e avevo chiuso gli occhi quando udii
l'uscio che veniva riaperto piano piano. Un secondo dopo lei venne
ad inginocchiarsi ai piedi del mio letto di fortuna. Anche nell'oscuri-
tà intuii che non stava sorridendo.
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— Chi siete, Nick? — mi domandò. — Non avete mai voluto
dirmelo.
Sporsi un braccio e glielo misi attorno alle spalle, attirandola
verso di me.
— Sono un tale che ha una gran voglia di baciarti, bambina
mia — le risposi. — E tu chi sei?
— Una tale che ha una gran voglia di lasciarsi baciare — mi
rispose a sua volta.
Ci aggrappammo uno all'altro come due naufraghi, e la vesta-
glia partì. Le mie dita trovarono i piccoli seni rivolti all'insù. Glieli
avevano malmenati a turno, ma io li accarezzai con la massima de-
licatezza. I capezzoli rosa si eressero subito al contatto delle mie
mani, e capii che non mi avrebbe respinto. Anche le sue labbra
morbide e tiepide mi dissero un sacco di cose, pur senza parlare.
Riassaggiai quella dolcezza di miele che già avevo esperimentato di
sfuggita. Ma stavolta la sua bocca rimase per un bel pezzo incollata
alla mia. Continuai ad accarezzarle le belle spalle nude, l'epidermi-
de di seta. Lei si era inginocchiata ancora ai piedi del divano. La
sollevai per la vita e la feci giacere al mio fianco. Ci stringemmo
uno all'altro con un'intensità che non aveva bisogno di parole.
All'inizio era un po' impacciata, ma le mie carezze esperte ed
estenuanti vinsero ogni riluttanza e scatenarono la passione. Mi si
aggrappò esclamando in un singhiozzo:
— Oh, Nick, Nick! Prendimi, sono tua... Stringimi forte, forte.
Non lasciarmi mai, né stanotte, né domani... Non lasciarmi sino al
momento della partenza. Sta sempre qui con me...
Mi impossessai di lei, e rispose con l'ardore naturale e tenero
della giovinezza. La seconda volta fu ugualmente appassionata,
ugualmente tenera e meravigliosa. Si era liberata ormai da ogni ini-
bizione e si abbandonava con tutta se stessa, senza riserve.
Ad un certo punto ci alzammo per fare uno spuntino. A parte
alcuni brevi intervalli, passammo quei due giorni e mezzo a letto.
Non avevamo altro tempo disponibile, perciò volevamo approfittare
del poco che ci era rimasto. La conversazione intelligente di Lisa e
il suo delizioso senso dell'umorismo aggiunsero un profumo ancora
più speziato ai nostri amplessi. Era una ragazza moderna, indipen-
dente, un po' sofisticata e molto sportiva. Sotto le coltri però di-
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ventava subito un burro. Un bel panetto di burro impastato col miele
e vibrante di desiderio. E' una similitudine cretina, lo so, ma non
posso farci nulla.
Il venerdì giunse anche troppo presto. Mi decisi a rivestirmi –
non l'avevo più fatto da quando ero arrivato – perché non volevo
che zia Anna mi trovasse in casa sua. Ero molto addolorato di
doverla lasciare. Capitava così di rado di trovare una ragazza piace-
vole anche fuori dal letto... Com'era diversa dalla defunta Helga!
— Che aereo prenderai, domani? — mi domandò quando mi
accompagnò alla porta. Avevo prenotato il posto per telefono duran-
te una breve pausa tra un amplesso e l'altro.
— Quello che parte da Tempelhof alle dieci.
— Verrò a salutarti.
— Ne sarò felice, ma... ti sembra il caso? Voglio dire vederci
all'aeroporto come due estranei, scambiarci delle parole banali...
— Verrò.
Da quando ero arrivato a Berlino Ovest non avevo fatto che
sfruttare le amicizie femminili e non avevo ancora preso una camera
d'albergo. Lo feci per quell'ultima notte, visto che l'alloggio di zia
Anna era off-limits. Inutile dire che continuai a pensare a Lisa. Mi
sarebbe piaciuto che la cosa non finisse lì. Ma era sempre la stessa
storia, purtroppo. Trovavo una donna che mi attraeva, poi scoprivo
che era una nemica che mi complottava alle spalle; o me la vedevo
morire tra le braccia durante una missione pericolosa, o mi toccava
perderla a causa dei miei continui vagabondaggi per il mondo.
Chissà dove mi avrebbe sbattuto Hawk, adesso?
L'indomani mi alzai presto, dopo una nottata insoddisfacente
dal punto di vista amoroso ma riposante per il midollo spinale.
Giunsi all'aeroporto con un anticipo notevole. Era molto affol-
lato, come sempre. Allungavo il collo per cercare Lisa ma non
riuscivo a scorgerla in mezzo a tutta quella gente. Il momento della
partenza si avvicinava ormai, e disperavo di salutarla. Vidi invece la
sua figuretta che veniva verso di me, con uno splendido abito tur-
chese e quell'espressione indefinibile negli occhi.
— Come mai così tardi? — le domandai, quasi con malgarbo.
— Ormai debbo salire a bordo.
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— Sono stata trattenuta da alcuni impedimenti dell'ultima ora
— mi spiegò affiancandomisi per accompagnarmi all'apparecchio.
Tesi il mio biglietto per il controllo, e vidi che anche lei faceva
altrettanto. Spalancai gli occhi per lo stupore.
— Ma che diavolo... Cosa fai?
— Vado a casa — mi rispose infilando il braccio sotto il mio e
procedendo verso l'aereo.
Mi fermai di botto.
— A casa dove?
Cominciavo ad avere un certo presentimento, ma volevo sen-
tirglielo dire.
— A Milwaukee — mi spiegò tranquilla. — Andiamo, che
qui blocchi il passaggio.
Seguii la sua figuretta lunga e snella che rampava su per la
scala dell'apparecchio. Trovò subito suo posto e mi fece cenno di
mettermi a sedere accanto a lei dando qualche manatina espressiva
al cuoio della poltrona.
— Un momento — dissi, più perplesso che mai. — Che vuol
dire "Milwaukee"?
— E' una città del Wisconsin, capoluogo di contea, alla foce
del fiume omonimo che si getta nel lago Michigan. Circa ottocen-
tomila abitanti, compresi i sobborghi, porto sul lago, università
fondata nel 1881.
— Ma mi avevi detto di essere tedesca!
— Io? E quando? Mai detto nulla del genere! — Sembrava
indignata all'idea che la scambiassi per una prospera Frau o qualco-
sa di simile. A pensarci bene ammisi con me stesso che non aveva
mai affermato nulla di preciso sulle sue origini.
— Diciamo che sono oriunda — mi concesse infine. — Mi
trovavo qui in visita alla zia, come ti ho spiegato sin dal primo gior-
no. Sei stato tu a metterti in mente che venissi da Amburgo o da
Düsseldorf o da Bonn. Invece venivo da Milwaukee.
— Ti ho anche domandato dove avevi studiato l'inglese, per
conoscere così bene lo slang americano!
— E io ti ho risposto che vedo molti films. Anche questa è la
verità, vado spesso al cinema.
— A Milwaukee.
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— Già. A Milwaukee.
— Hai detto che avevi studiato l'inglese a scuola...
— Infatti. Non sono analfabeta, quindi ho frequentato la scuo-
la.
— A Milwaukee.
— A Milwaukee. — E mi dardeggiò con un sorriso di trionfo,
tutta contenta di avermi sfottuto.
Mi abbattei sul sedile accanto al suo.
— Se questo aereo non fosse così pieno di gente, ti rovescerei
sulle mie ginocchia, e...
— Puoi sempre farlo quando arriveremo a New York — mi
concesse con gli occhi che le danzavano maliziosi. — Ti prometto
di collaborare. Potrai rovesciarmi da tutte le parti e non protesterò.
Ricominciai a sorridere. Non era possibile arrabbiarsi con
quella benedetta figliola! Be', se non altro il volo sarebbe stato
piacevole. E anche il week-end si prospettava splendido, tutto
sommato.
FINE
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